Dalla mente reazionaria alla sinistra al caviale, i libri che spiegano Trump
New York. “Non avevamo capito niente del nostro paese” è il mantra degli intellettuali che ancora non riescono a darsi ragione della vittoria di Donald Trump, quelli che ora stanno digerendo le caratteristiche della sua coalizione elettorale, scoprendo con sconcerto che è più vasta e composita dell’America bianca, sdentata e retrograda che si aspettavano. Uno dei molti paradossi della vicenda elettorale è che gli ambienti degli intellettuali e giornalisti che ora si pentono e dolgono durante la campagna elettorale hanno speso soldi ed energie a profusione per rintracciare e identificare l’elettorato di Trump, descrivendone indole, motivazioni, condizioni socio-economiche, retroterra culturale e forma mentale, portando contestualmente alla luce la più generale condizione della vita americana in questo brandello di post modernità. Il risultato è che nell’elezione più imprevista della storia recente è cresciuta una vastissima letteratura che spiega radici, substrato e tratti cifrati del trumpismo, e in molti casi le analisi sono azzeccate, non si tratta di pamphlet che riflettono le semplificazioni manichee della sinistra più ideologica.
La pietra angolare dello scaffale trumpiano è “Hillbilly Elegy” di J. D. Vance, memoir fulminante che ha scalato le classifiche perché ha il ritmo e il respiro del romanzo, ma ha l’immenso pregio di raccontare il popolo della rust belt e degli Appalachi, il suo popolo, con molte sfumature e senza scorciatoie. E’ il racconto di una profonda crisi culturale e antropologica, non una generica infarinatura sull’impoverimento del Midwest. Vance è il primo ad aver spiegato agli alloctoni dell’élite che per capire quel mondo i parametri economici chiariscono e confondono allo stesso tempo. Nancy Isenberg, storica della Louisiana University, ha ripercorso nel suo “White Trash” la storia della working class bianca, depressa e senza voce che è la protagonista di questa tornata elettorale. Ha ricevuto critiche durissime, da destra, per una certa tendenza alla semplificazione che poco s’attaglia al mestiere dello storico, ma la materia prima da cui parte è preziosa e abbondante.
“Strangers in their Own Land” è quasi più interessante per le circostanze della sua nascita e stesura che per il contenuto stesso. L’autrice, Arlie Russell Hochschild, è una sociologa di Berkeley che si è resa improvvisamente conto di ciò che molti suoi colleghi hanno realizzato la notte delle elezioni: non conoscono il paese in cui vivono. Così Hochschild, donna dichiaratamente di sinistra, s’è imbarcata in un’indagine di cinque anni a fianco degli esponenti del Tea Party della Louisiana, e ne è venuta fuori un’analisi un po’ ovvia quando si muove nel registro della sociologia, molto meno quando plana su quello dell’empatia. L’opera va accompagnata da “Listen, Liberal” di Thomas Frank, autorità in materia di populismi di destra dai tempi di “What’s the Matter with Kansas?”, dove si racconta la traiettoria che ha portato il Partito democratico da difensore del popolo a difensore delle hors d’oeuvres con il caviale. Due libri, infine, trattano i presupposti del trumpismo ma dalle altezze irraggiungibili dello sguardo storico. “The Shipwrecked Mind”, dello storico Mark Lilla, è una indagine sull’arrivo della pulsione reazionaria in America nella forma di una raccolta di saggi; “Modernity and Its Discontent” di Steven Smith, docente di Yale, è una vasta e controintuitiva indagine sulle imperfezioni della modernità e i limiti del sistema liberale, a lungo concepito come l’ultimo, inevitabile stadio della società umana.