A Madame Tussauds, il museo delle cere di Londra, già ieri era in lavorazione la statua del nuovo presidente (foto LaPresse)

Governare con la febbre

Alla ricerca delle radici ideologiche di Donald Trump, il presidente degli Stati Uniti che restaura il vecchio ordine nazionalista e rottama il nuovo ordine mondiale. Trump non è un ideologo, è una rissa fra il senatore McCarthy e Kanye West nella villa di “Playboy”.

Pubblichiamo uno stralcio di “La febbre di Trump: un fenomeno americano” di Mattia Ferraresi, corrispondente del Foglio negli Stati Uniti. Il libro, edito da Marsilio (159 pagine, 12 euro) e uscito lo scorso luglio, è lo strumento ideale per capire da dove arriva (e dove andrà) il nuovo presidente degli Stati Uniti. E’ disponibile in libreria e negli store digitali.

 


 

Populista, autoritario, realista, eastern republican, protezionista, market populist, nativista, fascista, centrista radicale, qualunquista: i politologi si sono affannati per collocare Trump in un territorio ben delimitato della mappa ideologica, spesso senza avvedersi che lo sforzo di distillazione teorica della sua politica viola le premesse anti-intellettuali su cui il trumpismo poggia. Trump non è un ideologo, è una rissa fra il senatore McCarthy e Kanye West nella villa di Playboy. E’ antagonismo pop sullo sfondo della stagnazione. Una forza liquida, amorfa, che si diffonde per contagio istintivo, non per persuasione, e prolifera sottopelle. “Il genio di Trump è proprio questo: non avere nessuna ideologia”, dice Sam Tanenhaus, giornalista, per molti anni al New York Times, e storico del movimento conservatore. Ma l’assenza di un impianto ideologico inquadrabile nelle categorie tradizionali non significa che il suo personaggio non abbia antecedenti riconoscibili nella storia politica americana.

 

Nel suo lungo peregrinare per campagne elettorali dal 1960 al 1972, Theodore White, grande cronista politico di simpatie democratiche, ha notato la presenza di un terzo partito invisibile che si agita dietro le quinte di un bipolarismo apparentemente inattaccabile, una forza alimentata dall’insoddisfazione per l’impianto politico che continuamente fa pressione e sposta l’asse del dibattito, ma raramente trova la legittimazione e le strutture organizzative necessarie per sostenere una corsa elettorale credibile. “C’è sempre stato un gruppo influente, specialmente nella destra, che non riconosce la legittimità del partito”, afferma Tanenhaus, autore nel 2009 del profetico saggio “The Death of Conservatism”. Oggi accenna scherzosamente a un sequel sulla decomposizione. Ma non è esattamente uno scherzo. 

 

Nel trumpismo c’è una dimensione di protesta i cui tratti “appaiono familiari”: “Un galvanizzato ‘centro radicale’ alienato dalla politica as usual, ansie economiche, cambiamenti demografici che penalizzano la base repubblicana naturale”. Sono gli stessi elementi che hanno portato Perot, uomo facoltoso ma senza la riconoscibilità di Trump, a prendere quasi venti milioni di voti nel 1992. In un contesto di crescente polarizzazione politica, Trump offre un’alternativa con tratti ideologici abbastanza confusi da raccogliere le simpatie di una base altrettanto confusa. Le analisi del gran maestro dei dati elettorali, Nate Silver, sulla composizione dell’elettorato di Trump confermano che non è un prodotto del bipartitismo: “E’ la cosa più vicina a un candidato credibile di un terzo partito da molto tempo a questa parte”. Che abbia ottenuto la nomination di un partito tradizionale non cambia la natura alternativa della sua operazione. L’elettorato di Trump sfugge alle rigide analisi su base etnica o economica. Contrariamente a quanto suggeriscono i luoghi comuni, a votarlo alle primarie repubblicane non sono stati soltanto i bianchi più poveri e meno istruiti. Un sondaggio della Rand Corporation osserva che oltre l’ottantasei per cento degli elettori di Trump è pronto a sottoscrivere questa dichiarazione: “La gente come me non ha voce in capitolo su quello che succede nel governo”. Nessun altro candidato ha raccolto tanti consensi fra gli americani che non si sentono rappresentati. Il terzo partito di Trump è quello dei senza voce. 

 

Il modello più recente del demagogo rabbioso non viene dai ranghi repubblicani, ma da quelli democratici: è il governatore dell’Alabama George Wallace, che nel 1968, da candidato indipendente, ha conquistato qualcosa come dieci milioni di voti e cinque Stati su una piattaforma ferocemente pro-segregazione, aggressivamente law and order e fondata sul perno dell’isolazionismo. In quella surreale e violenta tornata, Wallace insulta, fomenta, insolentisce; i suoi comizi sono bersaglio fisso di manifestanti e disturbatori. Ben consapevole di quanto fossero preziose, in termini di attenzione e di empatia – in una parola: spettacolo – queste incursioni indesiderate, Wallace ha cambiato idea quando un pazzo gli ha sparato, riducendolo sulla sedia a rotelle. 

 

Il grido “Segregation now! Segregation tomorrow! Segregation forever!” del populista dell’Alabama era l’equivalente dei “messicani stupratori” o della chiusura delle frontiere ai musulmani. Ma Wallace era anche un maestro nell’arte del sarcasmo e dello sfottò; dal palco puntava il dito ridendo contro gli hippie che protestavano: “Ci dev’essere lo sciopero dei parrucchieri!”. Le vittime preferite della sua retorica abrasiva però erano i “professori che non riescono nemmeno a parcheggiare una bicicletta come si deve”. Gli elettori di Wallace non erano esclusivamente segregazionisti del Sud: pescava in una falda d’insoddisfazione più profonda e indistinta. Per non porre argini all’allargamento del consenso, ha pubblicato un programma dettagliato soltanto tre settimane prima del voto. Trump è Wallace con Twitter. 

 

Un prominente, e spesso dimenticato, epigono del terzo partito invisibile è William Borah, il “leone dell’Idaho”, il senatore che nel 1936 vinse le primarie del Partito repubblicano ma venne poi disarcionato alla convention del partito, che allora esercitava un potere assoluto. Disgustato dall’establishment, Borah si rifiutò di dare il suo endorsement al candidato ufficiale, Alf Landon. Borah era uno strenuo isolazionista avverso al socialismo ma affascinato dall’Unione Sovietica, che lo accoglieva come ospite di riguardo, un promotore del mercato ma all’occasione protezionista, un conservatore affiliato all’ala progressista, in perenne polemica con l’establishment e talvolta anche con se stesso. “Mi riesce difficile immaginare il senatore Borah che va nella stessa direzione del suo cavallo”, aveva commentato il laconico presidente Calvin Coolidge alla notizia che Borah amava l’equitazione. Leggenda vuole che nel 1939 dopo l’invasione della Polonia abbia detto a un giornalista: “Dio, se soltanto avessi potuto parlare con Hitler, tutto questo sarebbe stato evitato!”. Non c’è stato tempo per confermare la dichiarazione: Borah è morto nel sonno nel gennaio del 1940, ma l’espressione che gli è stata attribuita è rimasta nel frasario politico di Washington, spesso usata negativamente dai repubblicani per indicare l’esecrabile tendenza a negoziare con dittatori e terroristi. Non stona, tuttavia, con lo spirito di Trump, artista del negoziato pronto a trattare con Vladimir Putin e a sedersi al tavolo con il nordcoreano Kim Jong-un, mentre incoraggia il Giappone a costruirsi un arsenale nucleare per sollevare l’America dall’onere di mantenere la stabilità nell’area. 

 

L’archetipo del demagogo americano rimane però Huey Long, il populista in doppiopetto gessato che tuonava contro i ricchi e, al grido di “condividiamo le ricchezze!”, ha fatto della sua Louisiana la cosa più simile a uno Stato di polizia che l’America abbia mai sperimentato. La famiglia Long ha dominato per generazioni la politica locale con uno stile a metà fra la lotta operaia e il clan mafioso. Roosevelt considerava Long un “Mussolini in potenza” e deve aver tirato un sospiro di sollievo quando, un mese dopo che Long aveva dichiarato di voler correre per la Casa Bianca, il parente di un suo avversario politico si è appostato dietro una colonna del Congresso di Baton Rouge, la capitale della Louisiana, e lo ha fatto fuori con un colpo di pistola al petto. I critici storpiavano il suo soprannome, “The Kingfish”, in un germanizzante “Der Kingfish”, mentre lui godeva di una fama principesca presso il suo popolo in cerca di un eroe, coltivata spingendo ancora più a sinistra le promesse di ripresa e prosperità del New Deal, facendo piovere dal Palazzo uno Stato sociale abbondante e insoespressi da Melania in modo chiaro e in un inglese slavizzante che ha una sua musicalità, si affievoliscono di fronte al trionfo luccicante dell’atrio della Trump Tower scelto come location dell’intervista, le parole sono inghiottite dalle sedie in stile Luigi xiv ritoccate dall’arredatore di un rapper egocentrico, dai lampadari di cristallo, dai marmi, dalle colonne, dall’abbacinante sfarzo. Un oligarca russo avrebbe suggerito un po’ di sobrietà. Quale immagine potrà mai trasmettere alla classe media irrequieta che Trump pasce l’ex modella slovena immersa in questo lussuoso luccicare? Io ho vinto: potete vincere anche voi. Altro che tasse ai ricchi e condivisione delle sofferenze, altro che banchieri da soffocare con il caviale e cinghie da stringere ancora di un buco. 

 

Il particolare brand populista di Trump non prevede che il grande magnate si abbassi al livello del popolo, si finga povero per esercitarsi con l’empatia, ma che esponga il suo sibaritico stile di vita a chi lo brama. Io non scendo, venite su voi. Quella dell’aspirante first lady non è un’intervista, è una pacchiana promessa di prosperità, è il sogno americano a ventiquattro carati. Si tratta di un episodio da manuale di “plutografia”, l’arte di esibire le ricchezze che negli anni ottanta è quasi diventata una scienza.  Nell’intervista di Melania, naturalmente, c’è la difesa d’ufficio del marito, l’elogio di un rapporto adulto in cui ciascuno ha la sua autonomia, i suoi diritti, i suoi spazi, tanto che Donald ne esce quasi come un’icona femminista; c’è lo sguardo magneticodi una quarantacinquenne che fra cornucopie traboccanti dobloni e putti che versano Veuve Clicquot dice: “Sono una full time mom”. A prevalere è la promessa implicita nella scenografia. Trump non vuole tutti gli uomini impiegati in appartamenti standard arredati Ikea, ma coperti d’oro come sovrani. Ogni uomo un re. 

 

Trump è irriducibile allo schema binario dei partiti così come li conosciamo; ha la postura, la retorica e il physique du rôle del candidato estremo e minoritario. Per vedere con chiarezza il suo retroterra ideologico però bisogna cliccare a ripetizione il segno “meno” nella funzione zoom della mappa politica, come si fa su Google Maps quando ci si vuole rendere conto di distanze e proporzioni. Il fenomeno Trump va osservato con il grandangolo, non con il microscopio. L’ideologia di fondo che il candidato esprime – e che normalmente nel dibattito non si nota, perché è esclusa o messa in ombra – è il nazionalismo. Il trumpismo ne è una versione dorata e luccicante, particolarmente sboccata e anti-intellettuale, ma si muove nell’ambito della politica dell’identità, premessa largamente rigettata dai partiti americani odierni. 

 

Il politologo Samuel Huntington, padre delle tesi sullo scontro di civiltà, ha dedicato l’ultima parte della sua riflessione all’identità americana e allo scollamento fra le idee dell’élite e la concezione identitaria insita nel popolo. In sintesi, l’idea sviluppata da Huntington è che l’élite ha troncato le sue radici, aggrappate al terreno anglosassone e protestante, per inseguire un ideale cosmopolita, transnazionale, universalista, perfettamente esportabile in ogni angolo del globo, una forma di pensiero che tende a mettere il prefisso “multi” davanti a qualunque aggettivo. Trump le chiama le “false sirene del globalismo”. Il popolo, per converso, è legato a quel coacervo identitario che Huntington definisce il “credo americano”, e anche laddove è venuta meno l’elaborazione concettuale, perfino la coscienza del contenuto specifico di tale credo, molti americani vi sono rimasti connessi in maniera viscerale e irriflessa. 

 

Il saggio “Dead Souls: The Denationalization of the American Elite”, apparso sulla rivista The National Interest nel 2004, sembra scritto nel mezzo della tambureggiante campagna di Trump che ha sconvolto l’America, ma Huntington non aveva letto l’arrivo di un restauratore identitario nei fondi del caffè, semplicemente osservava gli elementi che hanno generato e alimentato il trumpismo. Il politologo libertario Charles Murray sottolinea che l’apparizione di un fenomeno simile a quello odierno “era prevedibile” e che, essendo molto più antico e radicato del suo biondiccio interprete, il trumpismo sopravviverà a Trump. 

 

Scrive Huntington: “Il pubblico, in generale, è preoccupato dalla sicurezza fisica ma anche dalla sicurezza sociale, che riguarda la sostenibilità, all’interno di condizioni accettabili di evoluzione, di esistenti tendenze in termini di linguaggio, cultura, associazione, religione e identità nazionale. Per molte élite, queste preoccupazioni sono secondarie rispetto alla partecipazione all’economia globale, al sostegno del commercio internazionale e delle migrazioni, al rafforzamento delle istituzioni internazionali, alla promozione dei valori americani all’estero e all’incoraggiamento della cultura delle minoranze in patria”. Secondo lo studioso, la frattura fra l’élite e il popolo non è fra isolazionisti e internazionalisti, ma fra nazionalisti e cosmopoliti. L’ondata patriottica seguita all’11 settembre ha “temporaneamente messo in secondo piano questa frattura”, continua Huntington, ma in assenza di minacce di proporzioni simili “le forze pervasive della globalizzazione economica faciliteranno il processo di denazionalizzazione delle élite”. 

 


Sostenitori di Trump (foto LaPresse)


 

Nella prospettiva cosmopolita – che Huntington critica concettualmente e Trump visceralmente – l’America “è eccezionale non perché è una nazione unica ma perché è diventata la “nazione universale”. Si è unita al mondo attraverso l’arrivo in America di persone di altre società e tramite l’ampia diffusione della cultura popolare e dei valori americani in altre culture. La distinzione fra l’America e il mondo sta scomparendo per via del trionfo del potere americano e dell’attrattiva della società e cultura americana”. 

 

L’America di Trump è great, non è eccezionale. La politica dell’identità esiste nella misura in cui traccia confini, afferma distinzioni, sancisce dove finisce l’io e inizia l’altro, produce esiti che non sono replicabili o esportabili, ma sempre storici e circostanziati. Un muro costruito lungo un confine esaspera il concetto in maniera visuale e simbolica. L’idea cosmopolita, invece, aborrisce le distinzioni, tenta di cancellarle, esclude chi le osserva in quanto pericoloso nemico della società aperta. La filosofa cosmopolita Martha Nussbaum ha dichiarato l’orgoglio patrio “moralmente pericoloso” e pensa che le persone ragionevoli debbano invece prestare giuramento alla “comunità globale degli esseri umani”. 

 

In molte università americane, fucine della mentalità cosmopolita, domandare a uno studente dai tratti somatici chiaramente asiatici: “Da dove vieni?” è un sopruso inaccettabile che in certi casi può essere anche sanzionato dalle autorità universitarie. Il solo formulare la domanda implica una distinzione identitaria inaccettabile in una società multiculturale, è una “microaggressione”, gesto feroce proprio perché dettato più da un riflesso condizionato che da un’intenzione malevola. Per risolvere senza tensioni il problema tutto identitario di chiamare le cose con il loro nome – causato dalla scomparsa delle cose, non dalla carenza di nomi – è nato il politicamente corretto, e non è un caso che una certa parte del fascino di Trump derivi dal suo voluttuoso spezzare le pastoie del linguaggio ipercorretto. Il candidato osa dire ciò che i suoi elettori si azzardano soltanto a pensare. 

 

Questa capacità di creare un’empatia con gli elettori collima con un’altra osservazione di Huntington: “Mentre le élite si denazionalizzano, gli americani rimangono gli uomini più patriottici del mondo” e questo iato ha ricadute pesanti sullo stato di salute della democrazia: “Politicamente, la democrazia rimane tale perché i governanti sono scelti attraverso elezioni libere. In molti sensi, però, è diventata una democrazia non rappresentativa perché su diverse questioni cruciali, specialmente quelle che riguardano l’identità nazionale, i suoi leader passano leggi e implementano politiche contrarie alle idee del popolo americano. Nello stesso tempo, il popolo americano si è allontanato sempre di più dalla politica e dallo Stato”. 

 

La travolgente corsa di Trump verso la nomination repubblicana ha scardinato ogni calcolo politico, ma soprattutto ha ridotto in polvere un’idea fissata in The Party Decides: Presidential Nominations Before and After Reform, studio della University of Chicago che dava sostanza con dati storici e istituzionali alla tesi secondo cui è il tentacolare apparato del partito, non gli elettori, a decidere le candidature che contano. Deve essere molto ampia la voragine fra la visione dell’élite e i sentimenti viscerali di una maggioranza silenziosa se Trump è riuscito a rompere un meccanismo di cooptazione che pareva stabilito in modo definitivo. 

 

Intimamente legato al rapporto fra governanti e governati è il rapporto fra l’America e il mondo. Huntington delinea tre atteggiamenti di fondo: “Gli americani possono abbracciare il mondo, cioè aprire il loro paese ad altri popoli e ad altre culture; possono rimodellare altre società secondo i valori e la cultura americana, oppure possono tentare di mantenere la loro società distinta da quelle degli altri popoli”. Trump ha detto chiaramente che aderisce al paradigma della distinzione, quindi della difesa e della protezione. Nel discorso in cui ha rispolverato il vecchio motto “America First” come “tema principale e dominante della mia amministrazione”, ha spiegato che “lo Stato-nazione rimane il vero fondamento dell’armonia e della felicità”. I muri, i dazi sulle merci, il potere militare enorme ma usato in funzione deterrente e difensiva, la ridefinizione della “obsoleta” Nato, la pressione sugli alleati-parassiti perché smettano di pesare su Washington non sono che conseguenze politiche di una postura nazionalista. 

Le tragedie del Medio Oriente, nella visione di Trump, “sono iniziate con l’idea pericolosa che avremmo potuto portare la democrazia occidentale in paesi che non avevano esperienza né interesse nella democrazia”. L’America trumpista è una potenza economicamente fiorente e militarmente devastante che trova il proprio compimento nella coltivazione degli affari propri, e il candidato afferma implicitamente ciò che Huntington esplicita: “La stragrande maggioranza del popolo americano desidera preservare e rafforzare l’identità americana coltivata nei secoli”. 
Rimane un dubbio. L’eroe popolare e populista che coglie e interpreta gli istinti antielitari dell’uomo della strada può essere un palazzinaro miliardario di Manhattan con i lavandini del jet privato placcati in oro che è cresciuto nei gangli del potere, diventandone un simbolo? Sì e no. La definizione di “candidato anti-sistema” o “anti-establishment” in un certo senso è fuori luogo e ridicola. Trump è un’incarnazione dell’establishment, un suo gioiello scintillante. Ma se si prende il termine nel suo senso cosmopolita e universalista, la prospettiva cambia. Trump ha interessi economici globali, ma non ha le caratteristiche dell’”uomo di Davos”, non è un membro della “superclass”, non viene invitato nei salotti globali, i suoi rapporti con la grande finanza sono intensi ma limitati ai suoi interessi commerciali; è un realista, non un visionario, non ama trafficare con beni troppo volatili e sofisticati perché il suo impero è costruito sul mattone e sulla pubblicità, cardini di un sogno squisitamente americano. E’ un pezzo d’establishment locale tagliato fuori dai ragionamenti dell’élite globale.