Sirte, Mosul, Raqqa, tutte e tre le capitali dello Stato islamico sono sotto assedio
Nord dell’Iraq, dal nostro inviato. Domenica i gruppi curdo-arabi delle Forze siriane democratiche hanno annunciato l’inizio della battaglia per prendere Raqqa, capitale di fatto dello Stato islamico in Siria. Questo vuol dire che adesso tutte e tre le capitali dello Stato islamico, Mosul in Iraq, Raqqa in Siria e Sirte in Libia sono sotto assedio. Il grado di avanzamento della campagna è differente: in Libia ormai non restano che pochi edifici in mano ai baghdadisti, a Mosul è appena cominciata la battaglia urbana, vicolo per vicolo, e il ritmo è assai rallentato rispetto alle settimane precedenti; in Siria, infine, l’offensiva è ancora alla fase preliminare, deve ancora farsi strada in quella galassia di villaggi e fortini che orbitano attorno a Raqqa. In tutti e tre i casi, la scommessa lenta dell’Amministrazione Obama è che si può fare la guerra contro lo Stato islamico senza impegnare a terra troppo uomini – che finirebbero per eccitare la propaganda nel mondo musulmano – e lasciando fare alle forze locali, a cui tocca avanzare con la copertura dell’aviazione e delle forze speciali americane.
Questo approccio ha dei vantaggi, non ultimo quello di ridurre le perdite americane al minimo, il che non guasta durante il finale di mandato di un presidente che fu eletto nel 2008 grazie anche alla promessa di concludere le guerre americane. Però ha anche degli svantaggi, perché si basa sulla necessità ineludibile di trovare qualcuno a terra che faccia la guerra al posto tuo. Il caso più ostico è la Siria, dove l’Amministrazione Obama dispone soltanto delle Forze siriane democratiche (Sdf) – formate in maggioranza da curdi. Le Sdf hanno provato di essere valenti in battaglia, ma per entrare a Raqqa hanno bisogno di un maggior numero di combattenti arabi, altrimenti agli abitanti di Raqqa parrà di assistere non alla liberazione dallo Stato islamico – che li vessa dall’agosto 2013 – ma all’invasione di un’etnia, quella curda, con cui c’è diffidenza. Per ora, questi combattenti non ci sono, anzi, in generale manca proprio il numero minimo necessario per attaccare la città.
Le Sdf sono un alleato problematico anche perché sono detestate da un altro alleato, la Turchia di Recep Tayyip Erdogan, che agli americani ha imposto un ultimatum: o noi o loro. Per questo motivo in questi giorni i generali di Obama, mentre lui era impegnato nella battaglia elettorale domestica, hanno fatto la spola tra il Pentagono e Ankara per convincere il presidente turco ad accettare la cooperazione sullo stesso fronte con quelli che considera terroristi allo stesso livello dello Stato islamico. Si vedrà. C’è anche da capire, ma è un argomento taciuto, che cosa accadrà se e quando Raqqa sarà liberata. Sirte sarà restituita al governo di Tripoli, e Mosul al governo di Baghdad, ma cosa succederà del capoluogo siriano? Difficile che sia consegnato al regime di Damasco.
In Libia il problema della tensione etnica non c’è stato, i battaglioni di Misurata chiamati a fare il lavoro sono compatti, ma l’offensiva si è trascinata a un ritmo lentissimo – cominciata a giugno, continua ancora oggi – e il paese è spaccato a metà.
L’Amministrazione Obama ha reagito con lentezza all’ascesa dello Stato islamico, e ha perso credibilità in Siria, ma questo modello ibrido di fare la guerra al terrore con forze locali più bombardieri americani sta cominciando a raccogliere risultati. Con un effetto non trascurabile nella battaglia delle idee: il fatto che sono le forze del posto a impugnare le armi e a occuparsi della guerra indebolisce la propaganda del jihad, che è costretto a fare i conti con soldati musulmani, e questo toglie nettezza agli argomenti contro i “crociati”. In tutto questo assediare i luoghi più strategici dello Stato islamico i russi, che per bocca del presidente Vladimir Putin avevano annunciato una guerra senza quartiere contro il Califfato nel settembre 2015 dal podio delle Nazioni Unite, sono non pervenuti.