Intoppi e dimissioni rallentano la transition verso Trump
Il fedelissimo Giuliani in vantaggio su altri assai meno trumpiani per diventare segretario di Stato
Roma. Dopo la cacciata di Chris Christie, che da venerdì scorso non è più il capo del team di transizione del presidente eletto Donald Trump – e un giorno qualcuno scriverà un romanzo fosco sulla sua vicenda ambiziosa finita male – ieri il processo ha subìto un altro scossone con le dimissioni brusche di Mike Rogers, un ex senatore del Michigan che è stato a capo della Commissione Intelligence della Camera. Rogers si occupava della transizione in uno dei campi più delicati, la sicurezza nazionale, ma anche lui, come Christie, ha rimesso la materia nelle mani del nuovo capo del team di transizione, il vicepresidente eletto Mike Pence. E’ un inizio tormentato, specie se si considera che la transizione anche in tempi normali è una fase a metà tra l’acrobazia, per destreggiarsi nella selezione e nella nomina di quattromila nuovi funzionari, e l’indigestione, per il carico di lavoro. Prima di lasciare, Christie aveva firmato un memorandum d’intesa con l’Amministrazione Obama che disciplinava la riservatezza sulle informazioni condivise. Ora quel memorandum dev’essere di nuovo firmato da Pence.
La linea imboccata dall’Amministrazione Trump non è ancora chiara, posto che le dichiarazioni straordinarie fatte durante la campagna elettorale potrebbero non fare testo e che c’è da attendere l’insediamento. Se qualcosa si può anticipare, sarà soltanto grazie alle nomine. In politica estera, il nome più probabile per la carica di segretario di Stato è Rudolph Giuliani, seguito da una manciata di altri nomi interessanti. Secondo gli insider, Giuliani si è battuto molto per avere il posto di segretario di Stato, e quasi di sicuro lo avrà come premio per la fedeltà dimostrata durante la campagna elettorale. E se non lo ottenesse? Nella fiction, è la trama del primo episodio di “House of Cards”: un fedelissimo pronto a prendere quella carica viene deluso e medita vendetta.
Nel momento più buio della campagna elettorale di Trump, quando saltò fuori una vecchia registrazione audio che tradiva alcuni commenti sudici a proposito dei suoi rapporti con le donne, Giuliani fu l’unico tra i sostenitori della sua squadra ad andare in tv a difenderlo, mentre tutti gli altri disertavano, a corto di argomenti o di faccia tosta.
Giuliani è un ex magistrato d’inchiesta federale diventato sindaco di New York e non può vantare l’esperienza in politica estera dei suoi due predecessori, John Kerry e Hillary Clinton, ma dalla cima dell’onda di protesta generale che ha portato Trump alla Casa Bianca questo può essere considerato come un vantaggio eccezionale e non come un difetto che sbarra la strada. Durante la campagna Giuliani ha molto insistito sulla lotta al “terrorismo islamico estremista” e sull’eccessiva debolezza dimostrata dall’Amministrazione Obama contro i terroristi, ma questo non offre ancora indizi chiari su cosa intende fare. Il sito americano Politico ha pubblicato una lista dei potenziali conflitti d’interesse che potrebbero complicare la vita di Giuliani e che erano già saltati fuori durante il suo breve tentativo di correre per la presidenza nel 2007. Dopo avere lasciato la carica di sindaco, Giuliani ha guadagnato milioni di dollari come consulente e avvocato (il nome del suo studio è Giuliani Partners, lui nel 2007 dichiarava di possedere asset per settanta milioni di dollari) al servizio anche di alcuni clienti imbarazzanti per la politica estera americana. Una sussidiaria di Giuliani Partners, la Giuliani Security and Safety, ha lavorato per il Qatar – che è il tipo di regno sunnita del Golfo molto inviso all’elettore medio di Trump e sospettato di macchinazioni estremiste. Uno studio di Houston a cui Giuliani si è associato nel 2005 ha lavorato come lobby in Texas per la Citgo, la sussidiaria americana della compagnia petrolifera di stato del Venezuela allora controllata da Hugo Chávez, caudillo molto aggressivo nei confronti dell’America. Giuliani ha lavorato anche per l’oleodotto in costruzione Keystone XL, che Obama ha tentato di fermare e Trump invece ha promesso di far funzionare.
Circolano altri nomi oltre a Giuliani e sono interessanti perché in qualche modo contrastano le premesse ideologiche della presidenza Trump e rafforzano l’idea di un mandato – come ha detto Obama – “pragmatico”. Il primo è quello di John Bolton, ex ambasciatore americano alle Nazioni Unite durante la presidenza di George W. Bush e diplomatico considerato un falco tra i falchi – soprattutto contro l’Iran, ma anche contro il grande alleato storico dell’Iran nell’area mediorientale, la Siria di Bashar el Assad. Bolton è sanguigno, ma conosce i dossier della geopolitica. Il secondo è quello di Zalmay Khalilzad, ex ambasciatore americano in Iraq e in Afghanistan, anche lui con il presidente George W. Bush. Khalilzad è considerato un diplomatico abilissimo, ma è di origini afghane ed è un musulmano. Farebbe un figurone con i critici dell’Amministrazione Trump, ma di certo non sarebbe il prediletto della base tendenza Breitbart, il sito della destra suprematista che ha fatto per Trump una campagna sfegatata. Infine, si fa anche il nome di Stanley McChrystal, ex generale delle Forze speciali americane in Iraq, poi diventato successore del generale David Petraeus come comandante in capo in Afghanistan. L’ex generale, che oggi insegna a Yale, gode di un prestigio indiscusso in ambiente militare ed è l’uomo che ha diretto e vinto la grande caccia ad Abu Mussab al Zarqawi, il giordano che ha fondato lo Stato islamico in Iraq e fu ucciso dagli uomini di McChrystal nel giugno 2006. Anni dopo dovette lasciare il comando perché un giornalista di Rolling Stone sentì gli ufficiali del suo staff prendere in giro Obama. McChrystal qualche mese fa ha detto che lui toglierebbe le armi come il fucile d’assalto Ar-15 (vedi strage a Orlando) dal mercato americano, e anche questa è una posizione in contrasto con la base trumpiana. Del resto la transizione chiederà compromessi a tutti.