Europa e Usa guardino a oriente. Parla Ya'alon
Trump, Obama, stabilità globale. Parla l’ex capo di stato maggiore israeliano
Berlino. “Comunque vada, la relazione fra Israele e gli Stati Uniti rimarrà forte perché basata su valori e su interessi comuni, e questo è tanto più vero per i due establishment della Difesa”. Il giorno prima delle presidenziali americane, Moshe Ya’alon ha incontrato il Foglio nella capitale tedesca, dove era atteso per incontri con alcuni membri del Bundestag. L’ex capo di stato maggiore israeliano si è diplomaticamente tenuto al di fuori della tenzone fra Donald Trump e Hillary Clinton. Il che non gli ha impedito di affermare che con l’amministrazione Obama “sarebbe stato meglio essere d’accordo sulle principali questioni mediorientali: dal nucleare iraniano, alla minaccia della jihad globale, al collasso degli stati artificiali nella regione, all’instabilità in Siria, Iraq, Yemen e in Libia”.
Su tutti questi punti è mancata un’intesa al 100 per cento: l’auspicio è che domani non sia più così. Lo sdoganamento della Repubblica islamica brucia ancora a Israele e Ya’alon non ne fa mistero. “Noi non crediamo che negoziare con l’Iran sia stato un errore, ma l’esito di quei colloqui sì”. Grazie a una miscela di isolamento politico, minacce militari, sanzioni economiche e pressioni interne dovute alla crisi economica, “la guida suprema dell’Iran, Khamenei, era arrivato agli incontri in ginocchio, pronto a scendere a patti con il Grande Satana; invece ne è uscito con la piena, immutata capacità di produrre una bomba atomica e un semplice rinvio di dieci anni, vale a dire dopodomani”. Peggio ancora, l’Iran non è stato sanzionato per le sue altre attività-canaglia come la proliferazione di armamenti e la diffusione del terrore. Basti pensare, accenna Ya’alon, “alla fornitura di missili ai loro alleati Huthi in Yemen, armi che questi poi rivolgono contro gli stessi americani. Solo nell’ultimo mese per tre volte hanno lanciato missili contro il cacciatorpediniere Uss Mason”.
Stesso discorso vale per il sostegno alla milizia sciita libanese Hezbollah o la ripresa dei test missilistici dalle basi iraniane. Grazie allo sdoganamento voluto dai cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’Onu più la Germania, “l’Iran ha recuperato piena egemonia sulla regione” e oggi controlla i governi di Bagdad, di Sa’ana, di Damasco e di Beirut. “Il Libano è stato sequestrato: se un giorno quel paese entrerà in guerra, non lo deciderà nessuno dei suoi dirigenti; neppure Nasrallah, il leader di Hezbollah. La decisione sarà presa direttamente da Khamenei”. L’Iran minaccia anche la stabilità di tutti i governi del Golfo Persico, “dall’Arabia Saudita in giù”. Dall’Amministrazione americana di domani Ya’alon vuole capire “se interpreterà il ruolo di gendarme del mondo oppure se resterà passiva”. Perché la passività, sottolinea, crea dei vuoti che vengono subito riempiti da elementi-canaglia “come l’Iran, lo Stato islamico o Erdogan”. Senza dimenticare l’accresciuto margine di manovra per la Russia, oggi molto attiva nella regione. Da un lato il generale invita gli Usa a occuparsi del medio oriente in prima persona, dall’altro auspica una maggiore intesa fra Gerusalemme e Washington. Poi ammonisce: “Se non ti occupi dei problemi mediorientali, poi questi ti verranno a cercare a casa tua o in Europa, sotto forma di terrorismo o di immigrazione”.
La riflessione si sposta quindi sull’Isis, “la cui ideologia è difficile da sconfiggere e che anzi si sta espandendo a cominciare dalla Libia”, ma che sul terreno può essere sconfitto. “E’ tutta una questione di soldi”, osserva nel ricordare come molti elementi sunniti in Sinai e in Siria si siano inizialmente affiliati allo Stato islamico solo per la sua grande liquidità. La guerra contro il califfo al Baghdadi si può vincere, il che, puntualizza, “non significa che oggi sia condotta bene: permettere la partecipazione di iraniani e turchi è un errore molto grave”. Ya’alon torna a invocare un poliziotto mondiale. Chi se non gli Usa hanno il potere di fermare la Turchia, un membro della Nato “che ha anche finanziato l’Isis, comprato il suo petrolio, permesso ai jihadisti di attraversare liberamente i propri confini verso l’Iraq e poi verso l’Europa e che ora ha in mano la bomba migratoria?”. L’ex ministro della Difesa di Netanyahu non parla di profughi ma di immigrati clandestini: “Marocchini, pachistani e migranti di altri paesi islamici sospinti dalla Turchia verso l’Europa. E nessuno in occidente ha mosso un dito né ha azionato alcuna leva politica o economica nei confronti di Ankara”.
E se gli incontri con i deputati tedeschi “sono andati molto bene”, Ya’alon non è però sicuro che i dirigenti europei abbiano capito che fare affari con l’Iran o con la Turchia oggi può avere una ricaduta sulla stabilità globale di domani. “Dobbiamo decidere meglio le nostre priorità. E agli Stati Uniti serve una nuova strategia globale, che comprenda un nuovo rapporto con i paesi sunniti, abbandonati negli ultimi anni”. Il tema della necessità di chiarezza di cui l’occidente sembra avere forte bisogno torna anche nell’affrontare la questione Unesco. Di recente l’organizzazione dell’Onu per la tutela della cultura ha avallato una serie di proposte arabo-palestinesi che pretendono di cancellare la millenaria presenza ebraica dalla terra di Israele. “Più assurde sono e più le risoluzioni dell’Unesco fanno i nostri interessi”, osserva Ya’alon, secondo cui negare il legame fra gli ebrei e la loro terra “è ridicolo”. Allo stesso tempo secondo il generale, “permettere che le Nazioni Unite siano così corrotte e faziose, e dominate da certi elementi rappresenta una grande sfida per tutta la civiltà occidentale”. In pochissimi, riconosce, hanno fatto proprio l’antico appello di Ugo La Malfa a difendere la libertà dell’occidente sotto le mura di Gerusalemme.
Eppure, con un mix tutto israeliano di pragmatismo e ottimismo, Ya’alon saluta anche le aberrazioni dell’Unesco “come una prova del nostro successo, della nostra capacità di sopravvivere. Hanno tentato di eliminarci con la guerra e hanno fallito, hanno provato a procurarsi armi di distruzione di massa e hanno fallito, hanno provato a fiaccare il popolo d’Israele con il terrorismo e hanno fallito”. La questione, ricorda l’ufficiale in pensione, non è l’occupazione ma il diritto di Israele a esistere. “Ecco perché è partita la campagna di delegittimazione, il cui prossimo obiettivo sarà il tentativo di annullare la dichiarazione Balfour. Peccato che l’occidente sia sempre pronto a cooperare con questa gente”. Israele, avverte però l’ex capo di stato maggiore, sa mettere a nudo queste mistificazioni, “tanto più che piano piano anche fra i nostri alleati stiamo osservando un lento risveglio”, sia fra gli stati sia presso la società civile. Il gioco dei palestinesi è sotto gli occhi del mondo. Tutto è iniziato, ricorda, con il caso della Mavi Marmara, l’imbarcazione turca che nel maggio del 2010 cercò di forzare il blocco navale attorno a Gaza. “A bordo c’erano jihadisti turchi, nazionalisti arabi, antisemiti e quelli che io chiamo ‘liberali naïf’, gente che crede che in Israele ci sia l’apartheid. Solo gli ebrei hanno la capacità di unire contro di loro gruppi tanto diversi. E per inciso anche io mi considero un liberale, ma di certo non sono naïf”.