L'isola dei senza Trump
I commenti madrileñi dei direttori e degli opinionisti dei media conservatori, per capire The Donald nel luogo in cui i cugini trumpiani non hanno attecchito.
Dicono che il primo ministro spagnolo, Mariano Rajoy, sia stato colto di sorpresa dall’elezione di Donald Trump in America – forse più di quanto non lo sia stato tutto il resto del mondo. Secondo i retroscena dei giornali spagnoli, il governo conservatore di Madrid aveva puntato tutto su Hillary Clinton, e non aveva un piano B nel caso in cui avvenisse l’imponderabile. O meglio, l’aveva, ma alla Moncloa, il palazzo presidenziale, non c’erano i mezzi per metterlo in atto. Pochi giorni prima delle elezioni, dal ministero degli Esteri di Madrid sono arrivate sulla scrivania di Rajoy due note confidenziali, scrivono i giornali, con supposizioni e analisi su quali sarebbero stati i nomi chiave di una futura Amministrazione Clinton o di una futura Amministrazione Trump. La prima nota era piena di nomi famigliari, vecchie conoscenze della diplomazia mondiale, in alcuni casi amici abbastanza stretti. La seconda era piena di nomi con cui la diplomazia spagnola non aveva mai avuto nemmeno un abboccamento furtivo – e nessuno si era mai occupato della questione, tanta era la convinzione di una vittoria di Clinton. E se molte cancellerie europee si sono trovate con lo stesso problema all’indomani del voto americano, ad avvicinare Rajoy e Trump non c’è nemmeno l’appartenenza alla medesima casa conservatrice. I due sono agli antipodi per stile di governo, temperamento e in parte anche ideologia. Tanto lo spagnolo è algido, attendista e intimamente informato di una visione tecnocratica del mondo (pur essendo un politico di professione, Rajoy nell’intimo è l’ultimo tecnocrate rimasto al potere in occidente) quanto l’americano è impulsivo e viscerale nel suo approccio alla politica.
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Nel Partito popolare di Rajoy c’è stato un certo ritegno d’establishment nei confronti di Trump – i dirigenti del partito inviati in America quest’estate hanno partecipato alla convention democratica ma non a quella repubblicana, incontrando il solo speaker del Congresso Paul Ryan – e al tempo stesso un apprezzamento limitato del tipo di problema a cui, agli occhi di molti americani, Trump è sembrato una risposta. Nel panorama del populismo occidentale, infatti, la Spagna è un’eccezione. Mentre il Vecchio continente è solcato da movimenti antisistema e identitari che si rifanno più o meno blandamente a valori di destra, la Spagna ha vissuto ogni tipo di populismo tranne quello di destra: populismo di estrema sinistra con Podemos, populismo autonomista con i movimenti indipendentisti della Catalogna, perfino populismo centrista, per quanto la definizione possa apparire ossimorica, se si considerano il linguaggio e lo stile politico di Ciudadanos. L’unico movimento della destra identitaria in Spagna si chiama Vox, un partito per ora ininfluente che rosicchia qualche punto percentuale alle elezioni locali ma è lontano anni luce dall’ingresso alle Cortes. Così, dall’osservatorio madrileño, la destra spagnola tendenzialmente moderata, certamente liberale e quasi sempre dalla fortissima impronta cattolica ha visto l’ascesa del fenomeno Trump con curiosità, e con un interesse misto a sospetto. La Spagna sa fin troppo bene cos’è il populismo, ma la risposta trumpiana è l’unica che per ora gli spagnoli non hanno ancora tentato.
“Donald Trump rappresenta tutto quello che non mi piace: l’isolazionismo, il nazionalismo, il machismo”, dice al Foglio Bieito Rubido Ramonde, direttore di Abc, il principale giornale della destra cattolica spagnola. “Ma sono convinto che il presidente Trump sarà molto diverso dal candidato Trump. Su molte questioni, il candidato ha esagerato e si è dimostrato eccessivamente populista, e probabilmente alcune delle promesse più estremiste non si avvereranno mai. Il nuovo presidente metterà in campo una politica conservatrice, ma anche per lui varrà il principio della realpolitik. La realtà obbligherà Trump a non isolare gli Stati Uniti e l’equilibrio dei poteri nella democrazia americana è forte. Trump non romperà i grandi ponti storici tra l’America e il resto del mondo. E’ altrettanto preoccupante, inoltre, il modo in cui lo spirito del politicamente corretto sta reagendo nelle contestazioni contro la vittoria in piena regola del presidente eletto. La delegittimazione che viene in questi giorni dalle piazze americane e da parte dell’Europa non solo è paradossale perché poco democratica, ma è pericolosa per tutti”. Bieito Rubido però è scettico sulla possibilità che il vento populista che spira da Washington abbia effetti sconvolgenti sull’Europa. “L’effetto Trump non cambierà il modo di fare politica dei leader europei. Non cambierà l’approccio di Rajoy, di May o di un Sarkozy. Ma la possibilità che possa apparire un Trump alla francese, all’italiana o alla tedesca non è da escludere”.
Casimiro García-Abadillo è il direttore di El Indipendiente, quotidiano online di tendenze liberali che è nato da pochi mesi e sta riscuotendo notevole successo, ma prima della sua nuova esperienza sulla rete è stato per più di trent’anni giornalista del Mundo, il principale quotidiano conservatore di Spagna, dove ha scalato tutta la gerarchia fino a diventare direttore del giornale nel 2014 e uno dei più rispettati columnist spagnoli. “Trump non sarà così terribile com’è sembrato durante la campagna elettorale”. Anche García-Abadillo è convinto che “il potere e l’arrivo alla Casa Bianca mitigheranno le posizioni del candidato. Ci sono alcune cose che non farà, come per esempio la costruzione del muro al confine con il Messico, ma altre che invece realizzerà. Mi preoccupa soprattutto sul fronte economico: le sue politiche, che comprendono un programma ambizioso di spesa per le infrastrutture e l’innalzamento di dazi doganali, potrebbero sul medio periodo perfino portare una maggiore crescita negli Stati Uniti, ma maggiori difficoltà per il resto del mondo, specie per i paesi molti indebitati come la Spagna. Altre vittime del suo annunciato ritiro dai commerci mondiali sarebbero il Messico, il Brasile, la Cina”. Sulla possibilità di un contagio trumpiano, García-Abadillo è più possibilista: “Nel contesto in cui viviamo la vittoria di Trump potrebbe dare alimento ai movimenti populisti in Europa. Il mondo invece di aprirsi si chiude su se stesso, diventa più egoista, più nazionalista; invece di ampliare le relazioni internazionali si trincera come se si preparasse alla battaglia. Non sorprende che il primo politico che Trump abbia ricevuto sia stato il leader ad interim dell’Ukip Nigel Farage, e che il risultato delle elezioni sia stato salutato come un buon auspicio dal Front national di Le Pen in Francia e da altri movimenti populisti di destra. Ma attenzione: anche il populismo di sinistra può trarne vantaggio. La situazione economica potrebbe peggiorare, creando un sostrato perfetto di indignazione su cui i populisti di sinistra prosperano. Podemos, per esempio, da terza forza politica potrebbe presto diventare la seconda. Si delinea un panorama politico che non mi piace, un settarismo con posizioni radicali, un panorama molto cupo che non aiuta un’economia globale già instabile”. Per la destra liberale, più “ragionevole e centrista”, questa è una battaglia persa, dice García Abadillo. “In America il Partito repubblicano ha alimentato il mostro, lasciandosi travolgere da movimenti come il Tea Party e non capendo la minaccia di Trump. Alla fine, quello che era considerato un clown ha vinto su tutti con un voto che è autenticamente di massa. La sua vittoria non è certo casuale, e i grandi partiti dell’occidente devono cominciare a dare delle risposte”.
“Donald Trump è un uomo imprevedibile e potenzialmente pericoloso per l’America e per il mondo”, dice al Foglio Lucía Méndez, columnist e capo della redazione editoriale del Mundo. “Un meccanismo complicato e potente è finito in mano a un uomo senza esperienza politica, il cui discorso è, anzi, nettamente antipolitico. Quest’uomo adesso è diventato un politico. Non sappiamo quello che farà, ed è ovvio che darà una sterzata conservatrice al governo dopo otto anni di Amministrazione Obama. Ma Trump non si rispecchia nemmeno nel paradigma conservatore. Sul libero commercio e su altre materie ha idee tutte sue, e questo lo rende ancora più imprevedibile. Si fa un gran parlare in politica e nei mass media della fine della socialdemocrazia, ma Trump è il prodotto di una crisi del mondo conservatore. In Francia è arrivata Le Pen, i conservatori britannici sono in crisi di fronte all’Ukip. La crisi interna del modello conservatore, in alcune occasioni ha portato gli esponenti dei partiti conservatori (Nicolas Sarkozy e Teresa May, per esempio) ad assumere idee o misure che appartengono a movimenti estremi e populisti. C’è una deriva e un’influenza che sta spostando i partiti conservatori tradizionali verso il populismo. Questo è un risultato della crisi finanziaria e della crisi del modello di rappresentazione parlamentare in tutto l’occidente. Gli estremismi sono cresciuti, nutrendosi di un populismo che salta i passaggi intermedi della rappresentazione politica per stabilire connessioni dirette tra i cittadini e i politici. E’ quello che ha fatto Trump, ma anche Le Pen o Farage. E’ quello che in Spagna sta facendo Podemos e in Italia Beppe Grillo. Questa è una crisi che investe sia la destra sia la sinistra, e che in alcuni paesi ha favorito la nascita di un populismo di destra e in altri di sinistra. La tentazione di questi movimenti in Europa è di approfittare della scia tracciata da Trump. Ma non penso che ci saranno fenomeni di imitazione. I populisti europei certamente si avvantaggeranno dell’ondata americana, ma non ci sarà una connessione diretta. La crisi europea è diversa da quella statunitense. Ed è molto più profonda”.
Francisco Marhuenda è il direttore della Razón, ed è stato uno dei pochi in Spagna a indovinare il successo di Mariano Rajoy alle elezioni di giugno. Con Trump ci è andato vicino, visto che la Razón è stato uno dei pochi giornali a dedicare la sua prima pagina a The Donald il giorno delle elezioni, ma il titolo era tutt’altro che rassicurante: Davanti all’abisso Trump. In un editoriale pubblicato dopo la vittoria del repubblicano, il direttore della Razón ha scritto che: “Non bisogna dimenticarsi quello che è stato il leitmotiv della campagna di Trump: il ritorno alle politiche protezioniste, al controllo dell’immigrazione e alla revisione delle relazioni internazionali, in chiave isolazionista. Vale a dire il ritorno a una America che guarderà dentro se stessa, che rinnega la stessa globalizzazione che lei stessa ha sostenuto, in un viaggio controcorrente del tempo e della storia. E’ possibile che l’ingresso alla Casa Bianca di Trump non provochi tensioni così grandi che il sistema democratico americano non sia capace di assorbire… ma l’elezione di Donald Trump continua a essere una cattiva notizia per tutti”. Dopo l’esplosione elettorale, però, Marhuenda ha deciso di lasciare il beneficio del dubbio a The Donald, e ha scritto questa settimana che il presidente eletto ha buone probabilità di diventare “un buon presidente”.
John Müller, economista liberale di formazione, anche lui scuola Mundo, è condirettore del quotidiano online El Español, altro esperimento di successo del panorama editoriale iberico. “Penso che Trump sarà diverso da quello che vediamo adesso”, dice al Foglio Müller. “Siamo nella fase di addomesticamento di Trump da parte dell’establishment. Il presidente eletto deve esplorare un nuovo territorio, imparare la cartografia del vero potere a Washington. Ci sono fortissimi elementi che lo porteranno alla moderazione. Ma inevitabilmente alcuni elementi più controversi del suo carattere prevarranno: la sua maniera irruente di prendere decisioni e quella spontaneità ‘quasi berlusconiana’ che tanto irrita gli europei. Trump può diventare un presidente molto conservatore ma influente nella storia come Theodore Roosevelt o un perditempo come l’ubriacone Warren Harding. La lezione che la Brexit e Trump insegnano ai partiti di destra è che anche loro non sono immuni dal populismo. Sembra che la razionalità stia fuggendo dalla politica perché ormai la politica sta perdendo la sua anima. La politica non è un esercizio della Teoria dei giochi con il fine di prendere la decisione migliore, ma un processo complesso di equilibri e contrappesi con il fine ultimo di mettere in atto la miglior decisione ‘possibile’. Una nuova tecnocrazia di economisti e politologi ha fatto credere ai leader politici che devono trascurare il senso comune della gente e agire per pure decisioni tecniche apparentemente corrette. E’ un errore. Il cittadino vuole essere governato da qualcuno con un’anima”.