Donald Trump (foto LaPresse)

Il contagio non esiste, non fatevi fregare. Gran lezione sul dopo Trump

Claudio Cerasa

C’è solo un modo per far diventare realtà l’onda populista: ragionare come se il trumpismo fosse il futuro del mondo e non una parentesi. L’Europa, il 2017, una storia inglese.

John Olav Kerr è un personaggio conosciuto in Gran Bretagna: dal 1990 al 1995 ha lavorato con Margaret Thatcher come ambasciatore britannico alla Commissione europea, nei due anni successivi ha lavorato con Tony Blair da ambasciatore della Gran Bretagna negli Stati Uniti, nel 1997 ha lavorato al mitico Foreign Office, oggi è a capo di un centro studi di successo che si chiama Centre for European Reform e negli ultimi mesi è diventato un volto noto nel suo paese per essere stato riconosciuto come uno degli autori dell’articolo 50 del Trattato di Lisbona, articolo che regola la procedura con cui il Regno Unito dovrebbe lasciare tecnicamente l’Unione europea. Due giorni fa Kerr, che da diverse settimane ha ricominciato a far parlare di sé per via della propria posizione rispetto alle modalità con cui dovrà essere gestita la Brexit (Kerr insiste molto sul fatto che la Brexit non sia irrevocabile e che sia necessario rivedere la decisione di lasciare l’Unione europea con un voto del Parlamento o con un secondo referendum), è intervenuto in un convegno organizzato a Londra dall’Institute for Government e ha sintetizzato quello che è un inconfessabile ma diffuso sentimento che sta iniziando a maturare nelle teste di chi ha cominciato ad accettare il fatto che la vittoria di Trump è la fine di un mondo ma non coinciderà necessariamente con la fine del mondo. Un concetto semplice: in Europa, non esiste alcun contagio di Trump, e tutti coloro che alle ultime elezioni sono arrivati sempre terzi continueranno a non vincere le elezioni.

 

Credo – ha detto Kerr spudoratamente due giorni dopo la vittoria di Donald Trump in America – che il prossimo presidente francese non sarà Marine Le Pen. Penso che il prossimo cancelliere tedesco sarà Angela Merkel e non Frauke Petry. Non credo che il fenomeno americano, essendo molto americano, sarà destinato a spazzare via la classe politica di questi paesi”.

 

Lord Kerr, come tutti noi, riconosce che negli ultimi tempi ci sono stati segnali che hanno mostrato una direzione diversa e che hanno permesso ad alcuni partiti, in Francia e in Germania ma aggiungiamo noi anche in Italia, di registrare successi o semi successi importanti. “Ma quello che dobbiamo capire è che la crescita dei gruppi anti sistema e di estrema destra è destinata a riassorbirsi e a essere di breve durata: è il segnale di un problema, non di un cambiamento strutturale nella cultura politica europea, e tutti gli studi che abbiamo a disposizione dimostrano che questi cicli politici che fanno leva su una critica generalizzata alle élite e all’establishment durano al massimo tra i cinque e i sette anni, e poi scompaiono”.

 

Lord Kerr ha ragione da vendere e come scriveva questo giornale la scorsa settimana esiste solo un modo sicuro per permettere alle forze anti sistema di crescere e magari un giorno di governare: manifestare paura nei loro confronti, inseguire le loro idee, copiarli in modo goffo, scendere sul loro campo, mostrarsi come la brutta copia delle forze anti sistema, pensare più ai meccanismi tattici per fermare i populismi che alle riforme giuste per limitare il loro raggio di azione e offrire così l’impressione di voler sfiancare e non sfidare i cuginetti di Trump.

 

“Sbaglia – ha aggiunto con saggezza Lord Kerr – chi pensa che la vittoria di Trump sia legata a un qualche preciso fattore economico o a una qualche generica questione relativa alla disuguaglianza. Non è così: il reddito mediano dell’elettore di Trump è molto più alto di quello dell’elettore mediano di Hillary Clinton”. E a maggior ragione, suggerisce Lord Kerr, sarebbe un errore leggere e interpretare il voto americano come se questo fosse il segnale esplicito di una volontà mondiale di chiudere l’epoca della globalizzazione.

 

Le parole dell’ex ambasciatore inglese ci aiutano a inquadrare meglio una questione importante che riguarda non solo l’Europa ma anche l’Italia e che prescinde da quello che sarà il risultato del referendum: cosa è necessario fare per evitare che la retorica del contagio – arrivano i populisti, aiuto, moriremo tutti, il mondo è finito, bisogna cambiare tutto – si trasformi in una self-fulfilling prophecy, una profezia che si autoavvera? Non inseguire il populismo per combattere il populismo è il primo passaggio obbligato ed elementare. Ma tra i rischi che l’Europa può correre nei prossimi mesi c’è la possibilità che si vada a radicalizzare un’altra forma di populismo che potrebbe nascondersi dietro alla retorica del no all’austerità. Per comodità elettorale ci saranno molti leader che nei prossimi giorni e nei prossimi mesi continueranno a dire che il male dell’Europa è il rigore. Ma se davvero il modo migliore di affrontare le forze anti sistema e il loro linguaggio mendace della post-truth è quello di usare il linguaggio della sincerità, prima o poi bisognerebbe avere il coraggio di governare e di conquistare gli elettori smettendola di raccontare frottole. E dicendo una cosa ovvia: i paesi che più crescono in Europa (Spagna, Germania, Gran Bretagna) sono quelli che hanno messo in campo con intelligenza e diligenza una buona miscela fatta di conti in regola e di riforme strutturali; e per battere le forze anti sistema non serve travestirsi da populisti e giocare con la generica retorica del no al rigore per battere le disuguaglianze. Serve qualcosa di più semplice e di ribelle che vista l’epoca che viviamo potrebbe essere la vera scossa che serve alla classe politica mondiale: battere il populismo non con la grammatica della menzogna ma con il rivoluzionario linguaggio della verità. Chissà che qualcuno non ci pensi davvero.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.