Quando il giornalismo trasforma gli ideali in pura ideologia
Il New York Times scrive ai lettori dopo la vittoria di Trump: domande giuste, ma niente scuse. Il problema è non percepire l’errore commesso.
Ci sarebbe qualche riflessione a freddo da fare sulla lettera che il New York Times ha scritto una settimana fa ai suoi abbonati, molto illuminante per capire che cosa è successo e succede a molta comunicazione di oggi. Nella lettera, il Nyt si interroga sul proprio ruolo e la propria comprensione della realtà americana durante le ultime elezioni presidenziali. Il celebre giornale ha appoggiato la Clinton apertamente, ha pubblicato ogni genere di dossier negativo su Trump (a cominciare da quello sui rapporti con le donne, spesso criticato e parzialmente smentito dalle stesse intervistate), ha suggerito la tesi che l’appoggio a Donald Trump si limitasse alle persone arrabbiate e con mentalità arretrata o ristretta.
Sorpresi dalla (per loro) del tutto inaspettata vittoria del magnate newyorchese, i giornalisti del Nyt nella lettera si pongono le domande giuste: “Abbiamo sottostimato l’appoggio a Trump? Quali forze e quali tendenze hanno sostenuto l’elezione divisiva di Trump? E soprattutto, come governerà questa figura ancora ampiamente enigmatica?”. Certo, per essere la Bibbia del giornalismo, il Nyt si fa queste domande un po’ in ritardo. Non avrebbero dovuto essere le domande di base dell’intero coverage della campagna elettorale, dopo che Trump aveva spazzato via 16 avversari alle primarie repubblicane, molti dei quali sostenuti da un più ricco patrimonio, da un maggiore appoggio del Partito repubblicano, da una simpatetica copertura della stampa e della televisione?
No, il Nyt non si è fatto queste domande sei mesi fa e, peggio ancora, anche nella curiosa lettera agli abbonati, non chiede esplicitamente perdono per non essersele fatte ma conclude autoassolvendosi – “crediamo di aver descritto entrambi i candidati con equità durante la campagna elettorale” – dopo aver citato gli immortali princìpi del giornalismo anglosassone di “descrivere l’America e il mondo onestamente, senza paura e senza favori (without fear or favor) cercando sempre di capire e riflettere tutte le prospettive e le esperienze di vita”.
Riassumendo, no: non hanno mai sbagliato e continueranno nella medesima linea. Certo, è sfuggito loro che un candidato rappresentava metà America, che metà del popolo che dovrebbero informare non ha creduto a una parola di quello che dicevano, che la divisione tra l’élite benpensante e la marmaglia “miserabile” (Clinton) è una visione del mondo e non l’unica verità, che qualche buona ragione tutti costoro trovassero nelle parole di Trump nonostante i suoi difetti e le sue frasi scorrette o peggio, che la tolleranza verso i pastrocchi di potere della Clinton era finita per un numero di americani ben più numeroso di quanti essi credessero. Non dovrebbe essere poco, eppure non è abbastanza per dire apertamente: “Scusate, se il nostro mestiere è espresso da quegli immortali princìpi, stavolta l’abbiamo fatto male”.
E’ proprio qui, infatti, il problema: non chiedono scusa perché non percepiscono l’errore commesso. Ed è questo, purtroppo, uno dei segni dell’ideologia. Che un giornalista abbia delle opinioni e delle passioni politiche è inevitabile e il mantra anglosassone della divisione tra fatti e commenti è forse semplicemente illusorio. Quindi è comprensibile che nella foga di una campagna elettorale anche un giornale che vuole essere imparziale o indipendente nel riportare i fatti scambi ciò che si vede con ciò che si vorrebbe vedere. Sono normali errori di percezione che, dal fischio dell’arbitro negli stadi di calcio fino alla persona a cui affidare i soldi o la vita, accadono in tutti i campi. Gli errori finiscono tutti nello stesso modo: con una sorprendente disillusione che fa vincere il principio di realtà sulle fantasie immaginate o idealizzate. Il problema insorge quando l’idealizzazione è diventata un’ideologia: così, mentre gli ideali accettano la verifica della realtà e sono pronti ad accettare anche di cambiare in nome di questa verifica, le ideologie vogliono solo affermare se stesse. Non importa quante saranno le smentite della realtà, l’ideologia troverà sempre il modo di spiegare tutto logicamente. Hannah Arendt diceva giustamente che l’ideologia è un’intelligente destituzione del reale.
Così, in questo caso, visto che l’ideologia dei princìpi economico-sociali liberal dell’élite dominante deve tenere a tutti costi e i risultati sono quelli che sono, non rimarrà che dire che “è la gente che ha sbagliato a votare” oppure, come già paventato da alcuni con la Brexit, “non è bene che tutti votino” o, peggio ancora, che “sono le persone che hanno votato ‘male’ a essere sbagliate” (sono bianchi, vecchi, ignoranti, frustrati, ecc.). Si passa così dalla banale distrazione fino alla teoria del nemico “oggettivo” – quello che è sbagliato non per ciò che pensa ma per ciò che è – con tanto di ritratto sociologico dell’orrore, incuranti del fatto che milioni di americani di altre etnie e nazionalità di provenienza, che quasi la metà delle donne, che qualche milione di giovani abbiano votato Trump. E’ bella l’ideologia perché non si deve mai dire “ho sbagliato”, non bisogna mai scusarsi, non si devono mai mettere in questione le proprie convinzioni. L’ideologia del momento è anche divertente perché tra i suoi postulati ha quello di dubitare di tutto e di essere fallibile. Ma è un discorso che, come si sa, vale solo per gli altri.
I conservatori inglesi