Con la Turchia servirebbe sana realpolitik, non benzina sul fuoco
Il Parlamento europeo ha approvato la sospensione dei negoziati per l’adesione di Ankara all’Unione.
Può ancora esistere il “sogno” di una Turchia europea? Molto probabilmente, secondo il Parlamento Europeo, la risposta sarà presto negativa. Gli eurodeputati hanno approvato oggi a Strasburgo la sospensione dei negoziati per l’adesione della Turchia all’Unione europea. E’ un parere non vincolante per gli organi con potere decisionale – Commissione e Consiglio – ma comunque indicativo che i venti, ormai, sembrano soffiare in una direzione ben diversa da quella presa nel 2005 quando, a metà strada tra speranze e dubbi, iniziarono i negoziati per favorire l’ingresso di Ankara nell’Ue.
La decisione del Parlamento, pur comprensibile alla luce degli oltre 36mila arresti avvenuti in Turchia dopo il fallito golpe di luglio e di una preoccupante deriva autoritaria messa in atto dal “Sultano” Erdogan, rischia però di rivelarsi controproducente e di gettare ulteriore benzina sul fuoco degli estremismi, che mai come in questo periodo stanno trovando terreno fertile in Europa e non solo. Se l’Unione europea vuole diventare “adulta” e dotarsi di una politica estera degna di questo nome, dovrebbe invece agire in base ai princìpi della vecchia, ma infallibile realpolitik. Avendo ormai preso atto che Erdogan rimarrà presidente della Turchia per molto tempo, è ancora possibile fare in modo che Ankara resti un partner affidabile e non ambisca a ritornare alle antiche ambizioni dell’Impero Ottomano?
Basterebbe partire dai dati demografici ed economici per comprendere che non si possono tagliare i ponti che ci collegano con l’altra sponda del Bosforo: sono oltre 4 milioni e mezzo i turchi residenti in Europa, mentre la Turchia è il settimo principale importatore di prodotti europei e il quinto esportatore verso l’Ue. La Turchia rappresenta una “cerniera” geopolitica di straordinaria importanza: il Financial Times ha usato pochi giorni fa l’espressione “occidente dell’est e oriente dell’ovest” proprio per sottolineare come si tratti di un “ponte” tra due civiltà, un asset fondamentale per la sicurezza e la stabilità dell’intera regione euro-mediterranea.
Una maggiore lungimiranza avrebbe potuto consentire all’inizio degli anni Duemila di accelerare il processo di adesione della Turchia all’Ue, consentendo agli “anticorpi” democratici inoculati dall’appartenenza alla membership comunitaria di attecchire e germogliare in una società per molti aspetti già laica e moderna. Questo invece non è avvenuto e oggi a farne le spese sono proprio i tanti turchi di orientamento liberale che sono l’eredità più bella della rivoluzione kemalista, un vero unicum nel panorama delle società a religione islamica. Tuttavia, proprio per evitare che questo patrimonio vada irrimediabilmente disperso, sarebbe necessario proseguire un dialogo costruttivo con le istituzioni di Ankara. E’ oggettivamente impensabile oggi prevedere un ingresso a pieno titolo della Turchia nell’Ue, ma le cose assumerebbero una prospettiva diversa se si pensasse a costruire un’Europa “a più velocità”. La Brexit potrebbe fornire lo spunto adatto per dare seguito a questo progetto che riuscirebbe a neutralizzare le spinte disgreganti in atto attraverso una struttura flessibile, a cerchi “concentrici”, che consenta diversi livelli di integrazione (al centro vi saremmo noi italiani con Francia, Germania, Spagna, Olanda e Belgio) e preservi una unità complessiva con benefici comuni a livello politico, economico e sociale (pensiamo ad esempio alla possibilità di mantenere la libera circolazione delle persone).
La Turchia potrebbe fare parte di questo piano, che servirebbe all’Ue anche a scopi difensivi. Non va infatti dimenticato che l’appartenenza di Ankara alla Nato costituisce da una parte una risorsa importante per l’occidente, dall’altra invece una crescente preoccupazione, alla luce delle imprevedibili mosse di Erdogan e di quelle ancora più imprevedibili di Donald Trump, che potrebbe ridurre la protezione garantita ai partner più orientali dell’Alleanza atlantica. A fronte di un simile scenario, cui andrebbe aggiunta l’importanza di mantenere la Turchia come utile contrappeso nei confronti delle altre potenze mediorientali (Iran, Iraq, Arabia Saudita), un maggiore coinvolgimento e apertura da parte di Bruxelles ci sembrerebbe l'atteggiamento più saggio.
Questa posizione di apertura non dovrebbe certo tradursi in una totale condiscendenza verso la poca considerazione mostrata negli ultimi mesi da Erdogan per i diritti umani: l’Europa può e deve far sentire la sua voce in questo senso, cercando di usare l’arma del negoziato in maniera sapiente per indurlo ad un comportamento più conciliante e piu' rispettoso delle liberta individuali. Tuttavia, alla Sublime Porta non conviene opporre un’altra porta chiusa: è il momento di mostrare che l’Europa ha le capacità e la visione politica giuste per far sì che la Turchia rimanga un nostro grande, importante amico.