Cronache inglesi da un golpe democratico anti Brexit
Memo scarabocchiati, teorie del complotto, minacce di secessione, bronci. Gli euroscettici si sentono sotto l’assedio di ex cadaveri (politici), giudici e media
Theresa May ha deciso di non dare informazioni sull’avanzamento dei lavori della Brexit, anche a costo di essere presa costantemente in giro per quel suo “Brexit means Brexit” che in realtà non significa nulla. Alcuni commentatori dicono che la strategia del premier britannico è saggia: il negoziato è delicato, gli interlocutori sono tanti, l’esito pressoché imprevedibile, se si dovesse anche rendere conto pubblicamente di ogni scambio o di ogni riflessione non si andrebbe avanti mai di un passo. Il popolo ha votato, e ora spetta al governo il compito di interpretare al meglio la sua volontà: bisogna fidarsi, a un certo punto. La questione della Brexit, ma in generale della gestione dei desideri del popolo – in qualsiasi modo si manifestino – e di ogni rapporto umano sta semplicemente qui: nella fiducia. La May dice: fidatevi di me, farò il meglio che posso per il Regno Unito, il nostro interesse è comune, lo salvaguarderò. Il problema è che nessuno accoglie il suo appello: non lo fanno i falchi della Brexit, che temono che il premier tradisca la loro ambizione autarchica; non lo fanno le colombe della Brexit, che temono che la May si faccia trascinare dall’impeto populista della rottura brutale con l’Europa, con conseguenze economiche brutali, come dimostra già la fragilità della seminazionalizzata Royal Bank of Scotland, uscita malissimo dagli stress test; non lo fanno certamente quelli che la Brexit non la volevano e che chiedono in modo insistente: fateci dire la nostra, a un certo punto, un’altra volta.
Come ha spiegato Tony Blair, ex premier laburista che di quest’ultimo gruppo si sente il leader naturale, “è come decidere di cambiare casa senza aver visto quella nuova”: non ci sogneremmo di gestire in questo modo un trasloco, perché mai dovremmo farlo di fronte alla più grossa decisione politica che il Regno Unito deve affrontare dal Dopoguerra a oggi? E’ su questa linea interrotta della fiducia che si sta costruendo uno sforzo liberale enorme e allo stesso tempo dispotico: c’è stato un referendum, è stato vinto al 52 per cento da chi vuole la Brexit, perché voler invertire il processo, non vi sembra che così facendo ci si avvicini pericolosamente a un golpe democratico? La domanda corre in tutti i palazzi britannici e anche in quelli europei, dove l’effetto della provocazione è molto doloroso: l’Europa ha ormai una storia consolidata di voti riorganizzati fino a che l’esito non appariva almeno gradito (riguardare la storia recente della Grecia per credere). Ora Bruxelles ha deciso di tenere il broncio con Londra: non vuole che ci siano accordi collaterali tra paesi membri dell’Ue e il Regno Unito prima che inizi il negoziato complessivo, con l’attivazione dell’articolo 50 del Trattato di Lisbona. Non li vuole su una materia che in realtà la May ha molto a cuore, e anche gli europei: lo status degli stranieri europei che vivono e lavorano in Inghilterra e quello degli inglesi che vivono e lavorano nell’Unione europea. Fin dallo scorso luglio, appena arrivata a Downing Street, la May sperava in un accordo preventivo con Bruxelles che stabilisse che i 3,3 milioni di europei stanziati nel Regno Unito avessero il diritto a rimanervi, e la stessa offerta era fatta all’1,2 milioni di britannici “expat”. Ma la cancelliera tedesca, Angela Merkel, ha escluso la possibilità di ogni patto preventivo o collaterale con Londra prima dell’attivazione dell’articolo 50. Fraser Nelson, direttore dello Spectator, ha riferito che secondo le sue fonti la May è rimasta “sorpresa, quasi scioccata” quando la Merkel ha rifiutato la proposta inglese: “Il primo ministro ha avuto bisogno di qualche momento per ricomporsi dopo il rifiuto”.
Donald Tusk, presidente polacco del Consiglio europeo, ha scritto una lettera martedì in cui conferma la linea merkeliana – no accordi esterni al negoziato principale – e risponde a 80 parlamentari euroscettici britannici che, oltre a chiedere al Consiglio di garantire lo status di cittadini britannici a chi vive e lavora nell’Ue, si sono lamentati dell’operato di Michel Barnier, il francese che è stato scelto da Bruxelles come “commissario per la Brexit”, segnalandone la “preoccupante indifferenza” alle istanze inglesi. Tusk ha risposto dicendo che “l’unica fonte di ansia e incertezza”, in questo momento, è “la decisione sulla Brexit”, come a dire: siete voi inglesi che avete creato il problema, ora non potete pensare di poterlo risolvere come pare a voi. Il premier inglese May ha detto di voler attivare la procedura di divorzio entro la fine di marzo del prossimo anno, ma al momento la sua decisione è sospesa, o per meglio dire: è in mano ai giudici. L’Alta corte inglese ha stabilito che l’attivazione dell’articolo 50 non è materia esclusiva del governo, ma deve essere approvata – tramite una legge – anche dalle due camere del Parlamento, quella dei Comuni e quella dei Lord (questa seconda non è elettiva, quindi si pone di nuovo la questione della rappresentatività e della democrazia: possono circa 800 persone, tanti sono i Lord, non elette avere il potere di ribaltare una consultazione popolare, cioè una decisione degli elettori?). Il governo della May ha presentato ricorso alla Corte Suprema, la quale si riunirà in sessione comune – undici giudici, perché uno, Lord Toulson, si è dimesso l’estate scorsa: il presidente è Lord Neuberger – per tre giorni, dal 5 all’8 dicembre, e la sentenza è prevista per l’inizio del 2017.
Il dibattito di fronte alla Corte sarà pubblico e trasmesso in streaming, secondo un principio di trasparenza – e di spettacolo – che avrà effetti rilevanti sulla discussione della Brexit. Come si è già visto dopo la decisione dell’Alta Corte, il popolo pro Brexit ha intenzione di fare una guerra mediatica ai giudici “nemici del popolo”, che sono comparsi su tutti i giornali con le loro parrucche bianche indicati come gli autori del golpe democratico in corso contro la Brexit. I commentatori anti Brexit si sono scandalizzati per questi attacchi, brutto segno, hanno scritto allarmati, ma ecco, il concetto di democrazia è all’improvviso diventato una coperta troppo corta per riscaldare tutto il popolo inglese (per non parlare di quello europeo, che sta morendo di freddo). Ci aspetta uno scontro a intensità molto più elevata la prossima settimana, quando si aprirà il dibattito sulla sentenza definitiva, e i giornali anti Brexit stanno già dicendo (maledette previsioni) che la May rischia una sconfitta totale, undici giudici contro e zero a favore. Ci sono altri problemi legati a questo intervento dei giudici, e hanno a che fare con un tema piuttosto rilevante per la tenuta del Regno Unito fuori dall’Ue: la sua unione, appunto. Durante il dibattito, la Corte ascolterà anche i rappresentanti di Scozia e Galles che vogliono avere diritto di parola nell’attivazione del processo di divorzio dall’Ue – cioè vogliono opporsi. Il rischio di disintegrazione del Regno è invero molto alto per la May, che si troverebbe così a gestire in un sol colpo l’uscita dall’Ue e l’uscita di due pezzi di nazione dall’Inghilterra. Alcuni conservatori, per lo più contrari alla Brexit, consigliano al premier: prepariamo subito la legge da presentare al Parlamento, così acceleriamo i tempi, altrimenti non arriveremo mai pronti per marzo.
Per quanto infatti il senso di rimpianto sia alle stelle, nel Regno Unito, sembra che l’opposizione a un’eventuale legge sull’articolo 50 sia molto debole: anche il Labour ha detto di voler rispettare la volontà del popolo, e quindi di non ambire a un boicottaggio parlamentare. Gli indipendentisti dell’Ukip, che si sono dotati questa settimana di un nuovo leader, il trentanovenne Paul Nuttall, rilanciano con una proposta alternativa, e radicalissima: chiedono al Parlamento di rigettare l’European Communities Act, la legge che di fatto regola il rapporto tra Londra e Bruxelles, in modo da restaurare immediatamente la supremazia legislativa del Regno Unito. Niente articolo 50, insomma, “serve soltanto a rimandare, rimandare, rimandare, perdere tempo”, ha detto Nuttall: dichiariamo la secessione in maniera unilaterale e sul resto ci si accorderà in seguito. Molti hanno riso di fronte alla richiesta di Nuttall – il divorzio con l’Ue ha delle regole – ma si sa che le intemerate degli indipendentisti, al fondo, non fanno affatto ridere. Nuttall, come prima dichiarazione, ha detto di voler trasformare l’Ukip nel “partito patriottico dei lavoratori”, e siccome lui proviene da quelle midlands roccaforti del Labour che hanno votato a favore della Brexit è chiaro quale sia il suo obiettivo: annientare i laburisti. Anche la May, quando riesce a staccare la testa dal dossier del divorzio (quasi mai: dice che non ci dorme la notte, e la Bbc, che fa un servizio pubblico puntuale, ieri ha lanciato uno studio in cui si stabilisce che i lavoratori che non dormono alla notte costano all’economia inglese 40 milioni l’anno, e che a dormire poco si rischia la morte prematura), ambisce alla trasformazione dei Tory nel “partito dei lavoratori”.
Così il destino del Labour pare pericolante. Gli ultimi sondaggi – se ne fanno ancora, sì – danno i conservatori con un vantaggio stratosferico nei confronti del Labour: secondo la rilevazione Guardian/Icm, i Tory hanno un consenso del 44 per cento, mentre i laburisti sono fermi al 28. E’ dal 1992 che non si registra un distacco di questo genere, ma quel che più conta è che i conservatori sono avanti anche tra i lavoratori di fascia medio bassa, che da sempre rappresentano lo zoccolo duro del Labour. Il partito guidato da Jeremy Corbyn continua a essere favorito soltanto nella fascia d’età tra i 18 e i 24 anni, ma per il resto il predominio conservatore resta molto consistente – i liberaldemocratici, che pure sono un pochino resuscitati come attori del cosiddetto “golpe democratico” e animatori del “partito del 48 per cento” anti Brexit, si assestano al 7 per cento, ma nemmeno l’Ukip cresce, nonostante le roboanti dichiarazioni transatlantiche dell’ambasciatore di quel-che-l’establishment-non-capisce, Nigel Farage: per ora è fermo al 12 per cento. Cresce soltanto la May insomma, e mentre Lord Tabbit, ex ministro thatcheriano che fu ferito nell’attacco dell’Ira a Brighton del 1984 (morirono in cinque, sua moglie rimase paralizzata), dice che l’Inghilterra sembra precipitata negli anni Settanta e la May deve diventare la nuova Thatcher se vuole salvare il paese, la figura granitica del premier si scontra con una serie di indiscrezioni e di piccole tempeste mediatiche che non le danno tregua. Questa settimana il premio del leak più gustoso è stato consegnato a una povera addetta ai lavori di nome Julia Dockerill, che è capo di gabinetto del parlamentare conservatore anti Brexit Mark Field, e che stava andando al 10 di Downing Street dopo aver avuto un incontro con il “ministro per la Brexit” inglese, David Davis. La Dockerill – di cui a oggi non abbiamo più notizie ma che non è stata trattata benissimo dai media, che hanno registrato con ostentata sorpresa il fatto che Field avesse un capo di gabinetto – aveva in mano degli appunti che sono stati fotografati dal fotografo Steve Back e poi zoomati, pubblicati, analizzati e smentiti dal governo: questa non è la linea ufficiale sulla Brexit.
Poiché la linea ufficiale è sconosciuta si può sostenere qualsiasi cosa, ma quel che conta è che dagli scarabocchi immortalati si evincono alcuni elementi importanti (di cui con tutta probabilità si sta discutendo): il governo ha già deciso di abbandonare l’ipotesi del modello norvegese – quindi il fatto che il Regno Unito rimanga nel mercato unico europeo è giudicata “improbabile” – ma sta valutando un accordo commerciale “Canada plus” (già quello canadese è stato tormentato, chissà il “plus”) e la fuoriuscita dalla giurisdizione della Corte di giustizia europea perché non “s’attaglia” alla determinazione del premier May a contenere l’immigrazione. I francesi sono considerati i più ostili – sempre secondo questo memo scritto a mano, che non è stato contestualizzato in alcun modo – nella gestione della Brexit, e in particolare Michel Barnier è indicato come il più difficile da convincere anche sull’implementazione dell’articolo 50. Poiché il chiacchiericcio sulla Brexit non esisterebbe se si trattasse soltanto di considerazioni tecniche e laboriose, il memo regala uno slogan che resterà appiccicato per molto tempo al processo di divorzio: “Qual è il modello? – ha scritto la sfortunata consigliera – Have your cake and eat it”, che il ribaltamento di un detto popolare inglese che in italiano suonerebbe come: il modello della Brexit è avere la botte piena e la moglie ubriaca. Prendere tutto, arraffare, che è quello che gli europei temono – e combattono – ed è quello che fa alzare la voce degli anti Brexit: vogliamo che il popolo rivaluti di nuovo, questa seconda volta nel merito, il divorzio dall’Ue. L’ipotesi di un secondo referendum, che viene rilanciata da più parti e sotto forme diverse, innervosisce molto chi combatte il cosiddetto golpe democratico.
Allison Pearson ha raccontato sul Daily Telegraph che “cinque mesi dopo il voto pro Brexit, c’è ancora molta animosità” nei confronti di chi, come lei, “ha preso una decisione ottimista e informata sul riprendere il controllo della nostra amata nazione togliendola a un’arrogante e corrotta oligarchia che presidia un’economia stagnante”. Se la frustrazione delle persone, scrive la Pearson, è in qualche modo comprensibile pur se fastidiosa, il ruolo che stanno giocando i politici anti Brexit invece è pericoloso, e “dovrebbero risparmiarcelo”. La commentatrice fa riferimento a Tony Blair, che si è intestato la battaglia del rimpianto allargandola a un progetto politico che raccolga il mondo progressista contro il populismo di destra; a John Major, ex premier conservatore che ha raccolto l’appello blairiano a una nuova consultazione; e all’ex leader dei liberaldemocratici, Nick Clegg, che è stato il primo a cogliere l’opportunità di un “partito del 48 per cento” senza però farsene poi molto della propria intuizione. Blair è naturalmente l’obiettivo più ghiotto: l’ex premier laburista non è amato – e non riesce a farsene una ragione di questa ostilità, come ha sottolineato più volte nel corso dell’ultima intervista al magazine NewStatesman – né a destra né a sinistra e soprattutto, avendo per anni esaltato l’esportazione della democrazia nella famigerata guerra d’Iraq, diventa ancora meno credibile quando gli si oppone l’accusa di essere la mente, dietro le quinte, del golpe democratico.
Le teorie del complotto su Blair ormai non si contano più: dopo il referendum di giugno, quando la leadership di Jeremy Corbyn era stata messa in discussione dai parlamentari laburisti, le piazze a favore del leader erano piene di maschere blairiane insanguinate e di persone che raccontavano di tutte le aziende e società di consulenza che lavoravano per Blair e con Blair per organizzare un golpe dentro al partito. L’arrivo, di lì a poco, del report Chilcot sulla guerra in Iraq sembrava l’arma definitiva per levarsi l’ex premier di torno, e il fatto che invece ancora parli, ancora proponga fa esplodere di rabbia tutti i suoi detrattori. Si dà il caso che Blair, al momento, sia stato l’unico a provare a dare una risposta politica – per quanto non di politica attiva – agli scossoni arrivati con la Brexit e con l’elezione di Donald Trump, ma i meriti non gli vengono mai riconosciuti e anzi, come ha scritto l’ex ministro conservatore Iain Duncan-Smith, è già arrivato il momento di una “Blairexit” (Duncan-Smith, che era ministro del Lavoro nel governo Cameron e si dimise proprio a causa della Brexit di cui è fan, è anche uno dei principali critici dei giudici “out of touch”, che “hanno aperto lo scontro tra popolo e Parlamento inglesi”). Al gruppetto dei “golpisti” si aggiunge Sadiq Khan, sindaco laburista di Londra, che insiste nella creazione di “una soluzione londinese” al disastro della Brexit. Poiché Khan è l’unico ad avere un ruolo attivo nella politica attuale – gli altri sono stati definiti “dei cadaveri” che dovrebbero starsene fuori – l’offensiva di Khan è quella più efficace, anche perché si rivolge al mondo del business, che è alieno al Labour ma che è quasi nella totalità contrario alla Brexit: “Le imprese di Londra devono mantenere l’accesso ai lavoratori qualificati – ha scritto ieri su City AM il sindaco – E’ fondamentale per la prosperità di Londra e del Regno Unito del prossimo decennio”.
Khan sta valutando la possibilità di emettere visti esclusivamente londinesi – “London-only visa” – per i lavoratori europei che operano nella capitale: da tempo il sindaco sta mettendo in fila piccoli e grandi strumenti che possano in un tempo non troppo lontano rendere più plausibile una specie d’indipendenza londinese dal resto del paese, per assecondare il volere degli elettori della città (anti Brexit) e scongiurare gli effetti di una possibile, rovinosa “hard Brexit”. L’eventualità di una indipendenza londinese a oggi non è concreta, ma l’attivismo del sindaco e l’insistenza nel voler fermare la causa di divorzio nutrono l’idea che, di fronte all’umore popolare, la bolla dell’establishment reagisca o con un golpe o con una secessione – grande spazio viene dato allo stesso istinto indipendentista che ha colto la California dopo l’elezione di Donald Trump alla Casa Bianca. Oggi assisteremo a un test – elettorale – dello scontro tra chi vuole la Brexit e chi spera di ribaltarla. La suppletiva di Richmond Park e North Kingston rappresenta la prima possibilità per gli elettori di punire un conservatore di un certo peso a favore della Brexit (ce ne saranno altre di suppletive nel paese: sono già state ribattezzate “mini referendum sulla Brexit”). Si tratta di Zac Goldsmith, che tecnicamente non è più un conservatore perché ha lasciato il partito in polemica con l’ampliamento dell’aeroporto di Heathrow e si candida da indipendente, ma che nel maggio scorso era lo sfidante dei Tory contro Khan a Londra, nonché uno dei più visibili sostenitori della Brexit – e non esclude di poter rientrare nel partito.
Prima di dimettersi, Zac Goldsmith era il parlamentare di questa constituency, che non è del tutto rappresentativa: secondo i dati, vi risiede la più grande proporzione di diplomati e laureati di tutto il Regno Unito, c’è una grande concentrazione di businessmen della City, e seguendo la relazione che è stata tracciata tra istruzione e Brexit, qui il “remain” ha vinto al 72 per cento. Però si è anche molto contro all’allargamento dei terminal di Heathrow e in fondo si è affezionati al parlamentare Goldsmith, nobile ed ecologista, pur se straordinariamente euroscettico. La sua sfidante liberaldemocratica, Sarah Olney, è contraria come lui all’espansione di Heathrow ma naturalmente è contro la Brexit ed è per questo che la macchina elettorale dei Lib-Dem si è riversata in questo angolo di paradiso – ci sono i cervi, a Richmond Park – bussando a ciascuna porta “almeno quattro volte”, scrive il Financial Times, “lasciando almeno 20 volantini per casa e più di 600 manifesti nei giardini”. Goldsmith ha tenuto un profilo molto basso, gli esperti sostengono che lui vince se l’affluenza è bassa e pochi si accorgono che si vota: il suo entourage si dev’essere disperato ieri quando si è ritrovato Goldsmith un po’ ovunque sui media, dopo un mese di meticolosi rifiuti a qualsivoglia intervista o copertura mediatica. La notizia è questa: Goldsmith è stato investito dalla sua stessa auto, guidata da un volontario della campagna elettorale. Non si è fatto molto male, riferiscono, ma si è strappato i pantaloni e così è arrivato tardi all’ultimo incontro elettorale in programma prima del voto. Come test della Brexit questa suppletiva non sarà tra le più determinanti, ma è interessante ascoltare alcuni elettori che dicono: voto contro Goldsmith perché sono contro il governo conservatore, non tanto per quello che fa, ma perché non è stato eletto. C’è la Brexit, ma c’è anche molto di più, così l’effetto principale del golpe democratico alla fine potrebbe essere democraticissimo: portare la May a elezioni anticipate, e vedere che cosa succede. Non è un caso che i laburisti al minimo dei consensi non siano della battaglia.