Ecco il duplice vuoto da cui è sorta la centralità di Putin
Leggere Kissinger e Sergio Romano sull'America in ritirata e la ricerca di una rinnovata identità russa
Roma. Un’esplosione di casi di corruzione nella vicina Ucraina perché delegittima Kiev, un tentato golpe in Turchia perché mette i bastoni tra le ruote a un presidente con velleità da Sultano in medio oriente, la vittoria della Brexit al referendum inglese e l’avanzata dei partiti euroscettici perché indeboliscono l’Unione europea, l’elezione di Donald Trump perché può mettere fine all’escalation diplomatica con gli Stati Uniti, l’arrivo al potere di presidenti filo russi in Moldavia e in Bulgaria perché rende più sicuri i confini, infine – solo negli ultimi dieci giorni – la vittoria alle primarie della destra francese del candidato più filo Mosca (François Fillon) e l’avanzata decisa degli assadisti sulla città di Aleppo. L’anno che si sta per concludere, visto dal Cremlino, offre non poche soddisfazioni geopolitiche. Le conseguenze degli avvenimenti sopraelencati, a dire il vero, non sono così lineari come certe analisi vorrebbero far credere, e a maggior ragione non sono credibili i ragionamenti che riconducono tutti questi mutamenti a una volontà/capacità cospiratrice di Mosca. E’ indubbio, tuttavia, che per una ragione o per l’altra il momentum del presidente russo Vladimir Putin sul piano internazionale continua, come ha scritto l’analista americano Ian Bremmer. I tempi dell’esclusione russa dal G8, correva l’anno 2014, formalmente non sono ancora terminati, ma allo stesso tempo sembrano davvero lontani. Perché? I recenti scritti di due intellettuali (fieramente) realisti, l’ex segretario di stato americano Henry Kissinger e l’ambasciatore italiano Sergio Romano, forniscono due ipotesi parallele e complementari per comprendere la rinata centralità del paese guidato da Putin. Fosse una teoria propriamente detta, potrebbe essere chiamata quella del “duplice vuoto”, uno esterno e uno interno alla Russia.
Del primo “vuoto”, quello esterno ai confini di Mosca, dava conto ieri anche il Financial Times. Il quotidiano della City ha scritto che “i ribelli siriani, secondo alcune fonti degli stessi oppositori (anti Assad, ndr), stanno conducendo pourparler segreti con la Russia per mettere fine ai combattimenti ad Aleppo. Uno sviluppo che dimostra come gli Stati Uniti siano stati relegati ai margini di alcuni dei conflitti più decisivi del medio oriente”.
Una dinamica simile era stata descritta lo scorso agosto, al momento dell’ingresso delle truppe turche nel territorio siriano: gli Stati Uniti, anche in quel caso, non sarebbero stati avvertiti per tempo dal governo di Ankara. Nulla di cui stupirsi, almeno a voler prestare ascolto a Kissinger, al suo ultimo libro – “World Order” – o alle sue recenti interviste con Niall Ferguson e Jeffrey Goldberg. L’ex politico americano individua infatti quattro potenziali focolai di conflitti armati su larga scala: (1) il deterioramento delle relazioni sino-americane, (2) la rottura dei rapporti tra Russia e occidente in ragione di un’incomprensione reciproca che a sua volta è resa possibile da (3) un collasso di ciò che rimane dell’hard power europeo e della volontà di utilizzarlo e da (4) un’escalation dei conflitti mediorientali dovuta alla disponibilità mostrata da Barack Obama di consegnare l’egemonia nella regione all’Iran rivoluzionario. Tra deal nucleare con Teheran e appeasement chimico con Damasco, Obama – secondo Kissinger e non solo – “ha creato l’impressione di una ritirata strategica americana dalla regione”. Nel caso di specie siriano, è proprio in questo vuoto che Putin si è inserito: mentre nel 2013 Obama non sanzionò nemmeno il superamento della “linea rossa” sull’utilizzo di armi chimiche da parte di Assad, Mosca alla fine del 2015 schierò ufficialmente le sue forze militari con il dittatore siriano, capovolgendo le sorti del conflitto e costringendo Washington stessa a inseguire e a rafforzare successivamente la sua presenza (dietro le quinte) nel paese.
Una sintesi con le parole di Niall Ferguson, storico dell’Università di Stanford: Putin, in tutto il mondo, sta sfruttando l’abbaglio preso da Obama. Infatti un’America strutturalmente in ritirata, e allo stesso tempo apertamente critica del modus operandi di Mosca, è forse la ricetta migliore per alimentare la revanche putiniana. Anche perché al “vuoto esterno”, che Putin ha finora colmato abilmente ricorrendo a risorse materiali pur limitate, si affianca un “vuoto interno” al proprio paese che il leader nato a Leningrado (oggi San Pietroburgo) nel 1952 ha dovuto fronteggiare. E’ ciò che con sapienza analizza, tra le altre cose, l’ambasciatore Romano nel suo ultimo libro appena pubblicato da Longanesi: “Putin e la ricostruzione della Grande Russia”. Il volume si apre, guarda caso, con una conversazione tra un Kissinger in visita a Pietroburgo nella prima metà degli anni 90 e un Putin poco più che quarantenne che va a prenderlo in automobile all’aeroporto per portarlo dal suo datore di lavoro del tempo, il sindaco Anatolij Sobcak.
Il vuoto che si parò di fronte a Putin, allora, fu innanzitutto quello generato da uno stato sovietico in dissoluzione. Nel tempestoso passaggio di consegne tra Mikhail Gorbaciov e Boris Eltsin, condito dal risorgere dei nazionalismi, dall’attivismo di alcuni oligarchi usciti dalle file del Komsomol e perfino da una bancarotta statale nel 1998, non è ancora del tutto chiaro il percorso che ha portato Putin fino al premierato nel 1999. Romano si limita a osservare che “la grande famiglia dei servizi era ancora una delle poche colonne sopravvissute al crollo del tempio sovietico”. Più evidente, a partire da quel momento, è la strategia multiforme messa in campo dall’ex agente del Kgb per rafforzare il suo consenso nel paese. Al fondo, si è trattato di una sfida per fare i conti con la storia. “Può uno stato russo sopravvivere senza un credo, una fede, un’identità superiore a quella delle sue numerose componenti etniche e religiose?”, si chiede Romano, visto che “lo spazio ha forgiato le loro istituzioni, condizionato la loro cultura politica, creato quella combinazione di aggressività e di paura che è ancora oggi il dato caratteriale della loro politica estera”. Le tensioni con la Nato che negli anni 2000 si avvicina rapidamente alla (fu) sfera d’influenza russa, così come i conflitti con le organizzazioni non governative nate per tutelare i diritti umani e critiche della stretta autoritaria in corso, si inquadrano all’interno di “un vecchio dramma che va periodicamente in scena quando la Russia ha bisogno di una modernità che non riesce a realizzare con i propri mezzi e con le proprie risorse.
Deve indirizzarsi all’occidente da cui importa tutto ciò che le serve, dalla flotta di Pietro il Grande alla grande rete ferroviaria di Sergej Jul’evic Vitte, dal marxismo di Lenin alle privatizzazioni di Cubais e Gajdar”. Un “vuoto” che Putin ha riempito di euroasiatismo e nazionalismo vittimista, tutt’altro che alieni alla storia russa, e poi attingendo alle idee di Lev Gumilëv (m. 1992) che il presidente cita esplicitamente quando invoca la “volontà della nazione” e la sua “energia interiore”, infine rafforzando – come non mai dal 1917 – il ruolo pubblico della chiesa ortodossa. Così, sulla base di un robusto consenso interno che gli riconoscono perfino gli oppositori (da poco censurati) del Centro Levada, la Russia di Putin in questo 2016 è sembrata in condizione di troneggiare anche sui vuoti altrui.