Sinistra d'Europa dove sei? Il divorzio che ha sfasciato tutto
L’addio di Hollande segna il fallimento di un tentativo di dialogo tra sinistra liberale e sinistra antiglobale. L’eccezione italiana.
Milano. Lo sfondo è azzurro, François Hollande se ne sta andando ma butta un ultimo sguardo indietro, la scritta recita: “Senza di me”. Libération ieri immortalava il passo indietro del presidente francese – che non si ricandiderà a un secondo mandato: non accadeva dal 1958 – con un’immagine che fa sospettare che forse questo non è l’ultimo atto di Hollande e con uno slogan che può voler dire tutto: il sollievo, il disastro. Hollande viaggiava da tempo ai minimi storici del consenso, ma nel gioco che si apre ora – tra Manuel Valls, il premier che è descritto “emozionato”, il radicale ex ministro hollandiano Arnaud Montebourg e i satelliti esterni, il liberale ex ministro hollandiano (sì, le ha provate tutte, Hollande) Emmanuel Macron e il leader del Parti de gauche Jean-Luc Mélenchon – non contano i tatticismi, quanto piuttosto la consapevolezza che la logica del compromesso tra le due anime della sinistra è fallita.
Questo è quel che ha cercato di fare Hollande: creare un dialogo tra l’ala antiglobalizzazione e nazionalista della sinistra e quella aperturista e liberale. Ha cambiato politiche, ha cambiato ministri, ha cambiato alleati, ha provato a fare il giocoliere senza scegliere davvero dove collocarsi e consegnando a un fallimento amaro, e anche rabbioso, un progetto di “rassemblement” che avrebbe potuto fare da esempio per l’intera sinistra europea. Hollande ha molte colpe – se il regista non ha un suo punto di vista, il film diventa una schifezza – ma oggi è chiaro che queste due anime della sinistra sono sull’orlo del divorzio ufficiale, e già vivono in case separate. Il distacco non è indolore, perché le sinistre così rischiano di scomparire, elettoralmente parlando: l’unica eccezione è rappresentata dall’Italia che ha al governo un premier liberale e che è per questo sott’attacco nella tornata referendaria di questo fine settimana.
Nel resto d’Europa la sinistra è, nelle migliori delle ipotesi, cioè quella tedesca, relegata a socio di minoranza di un governo di coalizione in cui decide quasi tutto la cancelliera di centrodestra Angela Merkel. L’Spd è in continuo ribasso nei sondaggi, rosicchiato da una crisi d’identità che non produce né una nuova idea né un nuovo leader (l’ultimo che si ricordi, di successo, era Gerhard Schröder). Nell’Austria che va al (ri)ballottaggio per il presidente della Repubblica, c’è un timido tentativo di federazione progressista con altre sinistre dell’Europa del centro-nord, ma la gara politica al momento è tutta a destra. La sinistra spagnola non ha ancora trovato un’alternativa a José Luis Rodríguez Zapatero (che era un liberale), si è affidata a Pedro Sánchez che, come Hollande ma in misura molto più bassa, non ha scelto tra apertura e chiusura e ha racimolato pochissimi voti e uno status di guerra permanente, con assalti da sinistra da Podemos e dal centro da Ciudadanos. Il Regno Unito ha affidato il suo Labour a un signore socialista, Jeremy Corbyn, che è fortissimo a stare aggrappato alla sua sedia di leader ma nel confronto con i Tory è al 28 per cento, un minimo che si registrava all’inizio degli anni 90, prima dell’arrivo di Tony Blair e del New Labour.
La sinistra liberale ha preso uno schiaffo potente con la sconfitta di Hillary Clinton negli Stati Uniti, ma laddove la formula è stata sostituita da un ritorno al passato antiglobale non si vedono grandi successi, se non una retorica populista di sinistra che è andata bene in Grecia, con Syriza, ma che già tentenna (è in corso un crollo della popolarità del premier Tsipras). Come scriveva ancora ieri Philip Stephens sul Financial Times, la soluzione è la ricostruzione di un centro forte, con idee chiare e proiettate verso il futuro. Il problema è che le sinistre come le conosciamo oggi non potranno accomodarsi sul divano del centro insieme, perché stanno divorziando, e non si sanno parlare più.