Gli attentati dell'Isis costano al Belgio un terzo della crescita del pil
Oltre alle vite umane, le bombe di marzo sono già costate al paese 2,4 miliardi di euro e un gran numero di nuovi disoccupati
Roma. I kamikaze che lo scorso 22 marzo si fecero esplodere all’aeroporto di Zaventem e nella metropolitana di Bruxelles hanno inflitto un costo elevatissimo in termini di vite umane, ma i costi sociali, a distanza di mesi, si stanno rivelando altrettanto devastanti per il Belgio. Secondo gli ultimi dati riportati dalla stampa fiamminga, le esplosioni che causarono la morte di 32 persone e il ferimento di altre 300 sono costate all’economia belga 2,4 miliardi di euro, lo 0,57 per cento del pil, che nel giro di pochi mesi ha rallentato la sua crescita del 30 per cento (dal più 2 per cento prima degli attacchi al più 1,3 per cento di oggi). La disoccupazione è aumentata e, secondo uno studio commissionato dal governo sugli effetti immediati degli attentati sull’economia, ad aprile e a maggio i dipendenti del settore commerciale che hanno perso il lavoro sono aumentati rispettivamente del 20 e del 27 per cento. Negli stessi mesi, nel solo settore della ristorazione e della ricezione alberghiera, l’aumento della disoccupazione è stato del 186 per cento e del 157 per cento.
L’elevato costo sociale che la guerra allo Stato islamico deve comportare per un paese occidentale è teorizzato dallo stesso Califfato in uno dei testi di riferimento della sua dottrina. In Idārat at-Tawaḥḥuš (letteralmente, “La gestione della barbarie”), lo stratega islamista Abu Bakr Naji aveva scritto nel 2004 come il sangue dei “crociati” non basta per averne ragione: “Colpire l’economia dei miscredenti è uno degli obiettivi della sharia per mettere pressione sul nemico e fargli capire che continuare a combattere gli uomini di fede porta alla perdita di questo mondo e dei loro interessi che, nella realtà, sono il loro obiettivo segreto, coperto dai loro slogan e dalla loro ideologia”.
Così il Belgio è diventato il laboratorio ideale per il Califfato. Il paese non è solo il più importante incubatore europeo di combattenti jihadisti ma, secondo gli ultimi dati del World Economic Forum, è anche tra le prime sette economie europee per competitività, prima ancora di Francia, Austria e Lussemburgo. Il crollo economico dopo gli attentati ha riguardato tutti i settori – da quello turistico a quello industriale – e tutte le regioni del paese - Bruxelles, Vallonia e Fiandre - già penalizzate da una tassazione elevata. Così, giganti dell’industria come Caterpillar o delle compagnie assicurative come Axa hanno già annunciato tagli nel personale che coinvolgeranno quasi 3 mila lavoratori. Il primo ministro Charles Michel è alle prese con continui scioperi generali e con un processo di riforme economiche votate all’austerità la cui approvazione è complicata dal delicato sistema di alleanze su cui si basa la coalizione al governo e che include sia partiti francofoni sia fiamminghi.
Sebbene il sistema politico belga sia abituato alla frammentazione e al compromesso, il processo decisionale sulle questioni della sicurezza necessita rapidità. Lo dimostra l’ennesimo allarme lanciato la scorsa settimana dall’Europol e che mette in guardia dal rischio di nuovi attentati in Europa nei prossimi giorni, a ridosso delle festività. Che in Belgio il timore sia concreto lo dimostrano i numeri: a Bruxelles il tradizionale mercato natalizio di St Catherine ha visto un crollo delle visite, così come successo al Festival delle Fiandre a Ghent, che ha avuto un calo del 10 per cento di visitatori. Il settore delle sale cinematografiche della capitale lamenta una diminuzione del pubblico con perdite pari a 300 milioni di euro. Lo scorso novembre, Newsweek ha intervistato il capo della polizia federale, Catherine De Bolle, che si è detta preoccupata per la lentezza con cui il governo mette a disposizione delle forze di sicurezza i mezzi necessari per difendere i cittadini. Dalla necessità di prolungare il fermo dei sospettati di terrorismo (“In 24 ore, come funziona adesso, non facciamo in tempo nemmeno a scorrere tutta la rubrica dei loro cellulari”, ha detto) al rientro nel paese di molti combattenti e affiliati allo Stato islamico che ora lasciano il Califfato, in difficoltà in Siria e in Iraq. “Molte persone stanno rientrando, molte altre lo faranno. Molte donne torneranno e anche i loro figli. Come li gestiremo? E cosa faranno quando rientreranno? Riusciranno a reintegrarsi?”, si è chiesta De Bolle.