Fine protesta mai. Grillini brasiliani in piazza!
“Sérgio Moro pensaci tu”, urlano i manifestanti contro il presidente del Senato, dopo che un'altra legge anticorruzione è stata annacquata da decine di emendamenti
Roma. Nel 2014 urlavano “Fora Dilma!”. Ora gridano “Fora Renan!” (Renan Calheiros, presidente del Senato, accusato di corruzione e alleato dell’attuale presidente Temer, messo maluccio pure lui). Sono gli stessi. Sono tornati a riempire le strade delle grandi città brasiliane. Hanno solo cambiato i cartelli. Acclamano, però, lo stesso nome che acclamavano allora: Sérgio Moro, il giudice sceriffo che si studia i video di Mani pulite con Antonio Di Pietro e dice di leggere Piercamillo Davigo. Moro è il pm d’assalto che ha riscosso politicamente il successo mediatico dell’Operazione Lava Jato, la megainchiesta sui sovrapprezzi pagati a politici di tutti i partiti da tutte le imprese che hanno avuto appalti da Petrobras, l’azienda pubblica del petrolio. Dilma, ex presidente del Brasile, Partito dei lavoratori, è stata fatta fuori tecnicamente da un impeachment per un illecito amministrativo, una pedalata fiscale, reato non penale, nel mezzo di una crisi economica che ha reso furiosi tutti quelli che si erano illusi, nell’èra del boom economico lulista (2003-2010), di aver messo un piede fuori dal fango. Temer è il suo ex vice, del Pmdb, partito fondamentale nel gioco delle alleanze della politica brasiliana. Non presenta mai un candidato presidenziale e governa sempre. Si allea con il Pt, sinistra storica brasiliana. O con il Psdb, il partito di Fernando Enrique Cardoso, la destra liberal. Dipende da chi vince, l’ha sempre deciso dopo la proclamazione del risultato. Tranne alle ultime elezioni, quelle in cui Dilma è stata confermata alla presidenza per un soffio e ha accettato come vice Temer, che l’aveva sostenuta durante la campagna e l’ha impallinata appena ha potuto, forte non di un suo capitale politico personale (aveva il 12 per cento del gradimento popolare appena indossata la fascia presidenziale) ma di uno stallo in cui l’unico potere istituzionale con appeal è quello giudiziario, portato in gloria per aver fatto arrestare l’intera classe dirigente del partito di Lula, tranne Lula che rischia grosso, alcuni imprenditori di rilievo e una cospicua parte dei dirigenti degli altri partiti.
“Io non volevo cambiare Dilma con un altro, un corrotto con un altro, io non volevo Temer. Elezioni, elezioni!” si sente gridare durante i cortei di protesta. “Sérgio Moro pensaci tu”. A innescare la miccia stavolta è stata la notizia dell’annacquamento, con una raffica di emendamenti, di un pacchetto di proposte di legge anticorruzione, chiesto dai pm più barricaderi e sostenuto da due milioni di firme. I critici dicono che leggi simili sono incompatibili con una democrazia che voglia tutelare anche in minima parte i diritti degli individui. Ma la notizia che un Parlamento con decine di inquisiti abbia ammorbidito la legge del “tutti in galera” ha riportato molti in piazza.
Chi sono? Molti sono ancora i delusi del miracolo lulista che non vogliono credere che l’epoca delle vacche grasse sia finita. Odiano con la veemenza degli illusi traditi. Sono gli stessi che tre anni fa chiedevano migliori servizi pubblici e opportunità per i giovani (il 25 per cento dei brasiliani ha meno di 15 anni). Sono incattiviti dall’attesa vana di una svolta che non arriva. Sono in parte la nuova classe sociale creata dal primo decennio del primo governo di sinistra nella storia del Brasile. Sono quelli che si sono gonfiati di debiti convinti dai microcrediti che il boom fosse eterno. Non vogliono credere che quel miracolo fosse retto da un’incredibile congiuntura fatta di prezzi altissimi nel mercato internazionale dell’agrobusiness combinata a una politica di redistribuzione che non ha più i soldi per tenersi in piedi, né una leadership politica in grado di procurarseli, anche perché quella che c’era è stata spedita in galera. La cintura industriale di San Paolo, la gigantesca fabbrica di operai in cui è nato politicamente Lula, è da anni in fase di deindustrializzazione. Difficile che la faccia ripartire il giudice di prima istanza Sérgio Moro.