Putin vince, Obama perde
Di che pasta è fatta la vittoria dell'esercito siriano dentro Aleppo
La joint venture russo-iraniana-libanese etc. dilaga, i ribelli chiedono una tregua e l’evacuazione verso nord. Bombe israeliane su Damasco
Roma. Ieri è successa una cosa rara: il ministro della Difesa israeliano, il falco Avigdor Lieberman, ha confermato davanti a un gruppo di ambasciatori europei che ci sono attacchi aerei in corso da parte di Israele contro la Siria “per evitare trasferimenti di armi sofisticate, equipaggiamento militare e armi di distruzione di massa (chimiche?, ndr) a Hezbollah”. Poche ore prima, missili israeliani avevano colpito la base aerea di Mezzeh, vicina al palazzo del presidente Bashar el Assad che affaccia sulla capitale Damasco. Mercoledì scorso c’erano stati altri bombardamenti israeliani nella stessa zona – e per lo stesso motivo. Di solito la linea ufficiale è che queste operazioni non sono né confermate né smentite. Ora il ministro Lieberman dice che Israele non intende intervenire nella guerra civile siriana, ma che la sua posizione è che “gli iraniani e Assad devono andarsene” qualsiasi sarà la soluzione raggiunta per terminare quel conflitto.
Israele tenta di contenere la minaccia che si sta materializzando nel paese vicino, mentre quel grande assortimento di forze disparate che fa la guerra in Siria per tenere al potere il rais Assad ieri ha vinto la battaglia più importante dal 2011 e ha preso la parte vecchia di Aleppo, inclusa la cittadella storica che domina la città. Aviazione russa, consiglieri militari russi a terra, soldati iraniani, pasdaran, libanesi di Hezbollah, milizie irachene, afghane e pachistane importate con voli charter, nuove unità irregolari siriane nate durante la guerra – come la “Forza Tigre” – e infine anche reparti regolari superstiti (e i titoli poi sintetizzano così: “l’esercito siriano”) hanno prima raso al suolo e poi occupato l’ultima enclave in mano ai nemici.
La spiegazione migliore a proposito dell’esito di questa battaglia l’ha data un ufficiale americano anonimo sentito come fonte da Reuters per scrivere un pezzo uscito lunedì e intitolato: “La caduta di Aleppo sarebbe una vittoria per la Russia e una sconfitta per gli Stati Uniti in medio oriente”. Dice l’ufficiale: “Chi ha vinto? Putin, gli iraniani e Assad. Chi ha perso? Noi abbiamo perso, e la Giordania (che ospita il programma della Cia per armare e addestrare i ribelli moderati), soprattutto. E i sauditi e altri stati del Golfo”.
A questo punto l’enclave ribelle nella parte est di Aleppo ha le ore contate (il quindici per cento che ancora resta rispetto a un mese fa, forse meno) e per questo gli assediati chiedono un’improbabile tregua di sette giorni per evacuare feriti e civili attraverso corridoi umanitari da stabilire – se la proposta fosse accettata, il che è tutto da vedere – assieme alla Russia, con cui i ribelli non islamisti intrattengono trattative molto riservate in Turchia. Il governo siriano risponde: “Non accetteremo tregue che non prevedano l’abbandono delle posizioni da parte di tutti i terroristi”, e i russi ricamano più o meno sullo stesso concetto: “Chi resta sarà spazzato via”. Italia, Regno Unito, Canada, Francia e Stati Uniti appoggiano la proposta di cessate il fuoco.
Particolare importante: i ribelli assediati chiedono che l’evacuazione sia consentita loro non verso ovest, quindi verso la provincia di Idlib, che è già stata la destinazione finale di altre evacuazioni da altre parti del paese capitolate dopo anni di assedio, bensì verso la zona a nord di Aleppo che confina con la Turchia. La differenza è sostanziale perché le forze che si oppongono al rais Assad appartengono a tre categorie diverse, ci sono gli spezzoni filo al Qaida che sono molto forti nell’area di Idlib, ci sono fazioni che vivono nell’ambiguità e ci sono gruppi ribelli che, come diceva l’ufficiale sentito da Reuters, sono stati scrutinati e selezionati dal governo americano (Amministrazione Obama) e ricevono armi e addestramento dall’esterno – questi ultimi contano circa cinquantamila combattenti, secondo un dato ottenuto due giorni fa dal Washington Post. Se gli assediati di Aleppo chiedono di andare verso nord, vuol dire che vogliono unirsi ai gruppi ribelli che già sono attivi in quella zona e che al momento stanno combattendo contro lo Stato islamico nell’ambito dell’operazione “scudo dell’Eufrate”. In sintesi, lascerebbero la città di Aleppo e si sposterebbero di circa trenta chilometri per andare a raggiungere l’esercito turco che sta estinguendo la presenza dello Stato islamico nella parte orientale della regione di Aleppo.
Il giornalista e analista turco Mete Sohtaoglu (ex news editor di Cnn Turchia) dice al Foglio di essere convinto che esistano almeno due accordi sottobanco fra la Turchia del presidente Recep Tayyip Erdogan e la Russia del presidente Vladimir Putin a proposito della guerra nel nord della Siria. Il punto di partenza di questa intesa è che, a discapito della retorica trionfalista che dilaga sui media, alla parte che sta con Assad per ora mancano gli uomini per controllare pezzi di territorio molto estesi (e questo spiega la presenza delle decine di migliaia di miliziani stranieri). La materia dell’accordo sarebbe: i turchi creano una enclave ribelle nel nord di Aleppo, dove possono spostare i milioni di rifugiati siriani che oggi vivono nei campi profughi in Turchia (e pensano all’Europa come alternativa sicura di vita) e anche per spezzare la continuità territoriale dei curdi siriani, detestati, come tutti sanno, da Ankara: in cambio i russi si prendono Aleppo, vittoria che rende certa la permanenza di Assad al potere.
In questo modo il presidente siriano avrà il controllo assicurato prima di tutto sulle due principali città del paese, Damasco e Aleppo, poi sulla fascia più popolosa che corrisponde più o meno alla costa e infine anche su altre aree strategiche sparpagliate a macchia di leopardo nel resto del paese. Da questa posizione di vantaggio, l’assortimento militare che combatte per lui – ma non ai suoi ordini – potrà muovere contro le singole sacche di resistenza in mano ai gruppi che gli fanno la guerra, e provare a costringerle alla capitolazione una per una. Due giorni fa il presidente ceceno musulmano, Ramzan Kadyrov, ha annunciato l’invio in Siria di duecento ceceni come rinforzo per i russi.
Così, il regime siriano che ora vince è un regime svuotato e cambiato in modo radicale rispetto a quello del 2010, precedente allo scoppio della crisi. Lunedì 28 novembre i media libanesi hanno annunciato che alcuni comandanti militari del gruppo Hezbollah saranno integrati in una nuova unità dell’esercito siriano, chiamata Quinto corpo, creata una settimana prima su indicazione delle Guardie rivoluzionarie iraniane. L’esistenza del Quinto corpo giustifica il viavai di combattenti dal Libano e dall’Iran e anzi li rende una parte organica delle Forze armate siriane – da combattenti sulla lista occidentale dei gruppi terroristi che erano.
In tutto questo, il ruolo dell’Amministrazione Obama stinge sempre di più nell’impotenza completa. I media americani nei mesi passati avevano parlato della possibilità della conquista di Mosul, capitale dello Stato islamico in Iraq, prima delle elezioni dell’8 novembre. Invece il mandato di Obama finisce con la caduta di Aleppo est, che – più che una vittoria contro il fanatismo islamista – è una catastrofe umanitaria in stile centrafricano che risuonerà nel paese e in tutta l’area per i decenni a venire.