Perché a Tripoli guardano a Roma con le mani nei capelli
Il premier Serraj ha vinto la battaglia contro lo Stato islamico a Sirte, ma non è mai stato così malmesso
Roma. Le operazioni militari per liberare la città di Sirte dallo Stato islamico sono finite bene – a parte qualche sporadico avanzo di battaglia, come il combattente che si è fatto saltare in aria ieri. Ma il governo di Tripoli del premier designato-ma-non-ancora-ratificato Fayez al Serraj è in una posizione assai diversa rispetto a quando la battaglia cominciò otto mesi fa, a metà maggio. In teoria il suo governo è il primo al mondo a poter dichiarare una vittoria contro lo Stato islamico, ad avere ripreso una delle tre capitali di fatto del gruppo estremista (Sirte in Libia, Mosul in Iraq e Raqqa in Siria) e a poter riscuotere un minimo di gratitudine globale. In pratica, non è mai stato così malmesso come adesso, nel momento del trionfo. I suoi due grandi sponsor, l’Amministrazione Obama a Washington e il governo Renzi a Roma, non ci sono più. La promessa confidenziale fatta da Hillary Clinton, che a Serraj aveva garantito sostegno anche militare contro i suoi rivali (la Libia dell’est) non appena si fosse insediata alla Casa Bianca, è impossibile da mantenere. Ora in Italia potrebbe arrivare il momento del governo di Paolo Gentiloni, che con Serraj ha un rapporto stretto, ma si tratterebbe in ogni caso di un percorso a breve termine e Serraj ha disperato bisogno di stabilità.
Una curiosità: in Libia l’appoggio di Gentiloni a Serraj è percepito con tale forza e nettezza che il capo dello Stato islamico a Tripoli in un’intervista sulla rivista del gruppo cita l’influenza sul governo di Tripoli “da parte di alcuni leader infedeli stranieri come il francese Hollande, l’americano Obama” e appunto Gentiloni e non il premier Matteo Renzi (l’intervista è stata pubblicata in inglese ieri, in arabo sei settimane fa: in pratica una lucida anticipazione di scenari italiani). Serraj è il vincitore della battaglia di Sirte, si diceva, ma le milizie di Misurata, che hanno fatto tutto il lavoro contro lo Stato islamico per lui, hanno pagato con 630 morti e tremila feriti e ora esigono un premio. Già promettono di voler marciare sulla capitale per litigare a mano armatissima contro altre milizie locali che – secondo la loro accusa – vogliono prendere il potere al posto loro e ai danni di Serraj (a Tripoli la settimana scorsa ci sono state sparatorie violente).
Il rivale più pericoloso di Serraj è il generale Khalifa Haftar, che è l’uomo che prende le decisioni a Bengasi e nella Libia dell’est e che ha approfittato di questi mesi per prendere il controllo dei terminal petroliferi del paese, concentrati nel golfo della Sidra. Nei giorni scorsi è partita una campagna di guerra da parte del ministro della Difesa di Tripoli, Mohammed al Barghouti, per soffiare a Haftar i terminal, ma ecco il colpo di scena in stile libico: i combattimenti sembrano non avere paternità, nel senso che il governo di Tripoli dice di non saperne nulla, sebbene il ministro sia coinvolto. In tutto questo, lo Stato islamico è lungi dall’essere sconfitto e si riorganizza in zone meno amene della costa libica e più difficili da raggiungere, come il sud desertico. Lunedì Samantha Rao, portavoce di Africom (il comando del Pentagono che segue la situazione in Africa) ha detto che i raid aerei americani in Libia non finiranno e anzi si allargheranno verso sud e anche le milizie di Misurata hanno dichiarato – ieri – che la stessa area, quella a sud di Sirte, è ora zona militare: quindi ci si prepara a nuovi combattimenti contro lo Stato islamico.