Idea (non terzofrontista) per un'alleanza possibile con la Russia
Così solidarietà atlantica e fronte anti terrore con Mosca possono coesistere. Il saggio di un diplomatico italiano
Nell’anno della dissoluzione dell’Unione Sovietica mi trovavo ad Ottawa dove svolgevo, presso l’Ambasciata d’Italia, funzioni di Ministro Consigliere. Ricordo ancora nitidamente – e chiedo venia per il riferimento personale – di aver espresso in quei momenti un giudizio preciso sull’assoluta inopportunità da parte della Nato di spostare verso est le proprie frontiere: in questo confortato dalle indicazioni sempre ispirate a moderazione e buon senso, che venivo raccogliendo presso gli abituali interlocutori al ministero degli Affari Esteri canadese. Sappiamo bene qual è stato, invece, il corso degli avvenimenti successivi. Gli Stati Uniti (ma anche una parte dell’establishment europeo) hanno voluto, con il crollo dell’Unione Sovietica, cogliere non solo una vittoria ideologica (più che legittima dopo un’aspra confrontazione a livello mondiale durata oltre 70 anni) ma anche un decisivo trionfo geo-strategico: come se al di sotto della sovrastruttura ideologica marxista-leninista ci fosse stata una immensa landa spopolata, senza storia, interessi né ambizioni. E’ in questo errore, in questa hubris storica, che risiedono i germi degli sviluppi degli ultimi due decenni. Una volta ricomposto il trauma della rottura dell’ordine sovietico e trovato un leader con l’intelligenza e la volontà di recuperare almeno una parte del ruolo internazionale cui aveva dovuto abdicare, Mosca ha preso coscienza che nel frattempo una porzione importante della sua storica fascia di protezione occidentale si era convertita a un regime liberal-democratico e che molti degli stessi stati erano entrati nell’organizzazione dell’Alleanza atlantica.
Il capovolgimento, oltre a essere uno sfregio al suo prestigio, costituiva soprattutto un attentato a quel principio di difesa avanzata che dolorose esperienze storiche, durante centinaia di anni, avevano consolidato nella memoria del popolo russo. Alla fondazione di tale principio avevano contribuito sia i duecento anni di spietata dominazione mongola sia gli innumerevoli attacchi subiti a opera di potenze europee attraverso i confini occidentali. Giusto o infondato che sia siffatto sentimento di pericolo e precarietà, esso esiste, connota concretamente la sensibilità russa e, come tale, non poteva essere dimenticato. Gli Stati Uniti e l’occidente non ne hanno assolutamente tenuto conto e così, dopo l’esemplare politica di containment perseguita da Washington nei 45 anni di dissidio est-ovest, è stato dato l’avvio a una sorta di tardivo roll-back cui non poteva non seguire, dopo lo stordimento post-sovietico, una reazione a Mosca di segno contrario. Avvisaglie si erano prodotte già prima dell’operazione in Georgia nel 2008 e lo sconquasso ucraino del 2014 ne è la più clamorosa conferma. Attualmente i rapporti tra la Russia, gli Stati Uniti e l’Europa sono estremamente tesi, sospesi su una corda di instabile equilibrismo suscettibile di rompersi in qualsiasi momento, nonché avvelenati da diffidenza radicata, rivalità e sfiducia reciproche, cui i danni reali provocati dalle sanzioni e contro-sanzioni aggiungono una dimensione di ulteriore acredine.
Con la rapida ricostruzione degli eventi sopra delineata, non si è inteso attribuire all’Occidente una patente di morale colpevolezza per la genesi dell’attuale situazione conflittuale. Con la caduta dell’Urss si era aperto all’improvviso un enorme spazio vuoto nella geopolitica segnatamente nell’est europeo e, con la naturalezza di chi pratica una politica di potenza, gli Stati Uniti (e l’Europa) si erano subito inseriti, cercando di portare sino alle ultime conseguenze il vantaggio di cui beneficiavano. Normale atteggiamento nella politica internazionale, dal momento che un percorso alternativo, come quello che si seguì a Washinton di fronte a un’Europa distrutta all’indomani della fine della Seconda guerra mondiale e ispirato a grande lungimiranza ed illuminato self-interest, è un fatto del tutto eccezionale che richiede circostanze e tempra dei protagonisti altrettanto eccezionali. D’altronde anche Mosca, di fronte all’evidenza dell’incunearsi dell’occidente nei suoi spazi di frontiera, non ha fatto che attingere al bagaglio storico delle sue paure e delle sue idiosincrasie, ricorrendo a iniziative improntate a disinvolte interpretazioni, se non ad aperte violazioni, del diritto internazionale. Che fare? Come uscire dalla pericolosa impasse? Credo che bisognerebbe innanzitutto fare appello ad un disincantato realismo.
Ecco, qui di seguito, alcune considerazioni a esso ispirate: 1. L’occidente dovrebbe prendere atto che si è entrati in una nuova fase storica, in cui esso ha perso la “spinta propulsiva” che l’aveva determinato per gli ultimi quattro-cinque secoli. E ciò per ragioni sia interne (naturale, progressivo ridimensionamento delle forze vitali), sia soprattutto esterne (emergenza di nuovi attori internazionali, portatori di grandi potenzialità non meno che di visioni del mondo diverse). Tale indebolimento e tendenza alla introversione sono di palese evidenza in Europa, nel mezzo di una drammatica crisi programmatica ed economica, ma anche in prospettiva negli Stati Uniti che, ancora al pinnacolo della loro potenza, intravvedono sempre più i limiti della loro forza e i vincoli psicologici interni alla prosecuzione del ruolo di “gendarme” nel mondo. Non si tratta certo di abdicare alle legittime aspirazioni internazionali, ma di saper sempre più commisurare gli obiettivi alla volontà e ai mezzi disponibili. L’occidente ha irrorato per un periodo di alcuni secoli, in maniera quasi esclusiva, le linfe vitali dello sviluppo mondiale. Altre potenze concorrono ora a gestire tale eredità secondo la rispettiva scala dei valori e delle priorità. A noi compete più un atteggiamento riflessivo piuttosto che dinamicamente incalzante, più difensivo che ideologicamente aggressivo. D’altronde la apparentemente inesauribile vitalità dell’occidente sembra essersi sempre più concentrata in due dimensioni che sfuggono al controllo degli stati: quella del capitalismo globalizzato di cui si è ormai, per il bene e per il male e nonostante tutti i suoi problemi strutturali, impadronito l’intero mondo; e quella del cristianesimo che, dopo aver potentemente contribuito a creare l’occidente stesso, sembra ora in qualche modo prendere da esso le distanze, per meglio librarsi in libertà, senza i condizionamenti propri della identificazione con una specifica civiltà, nello svolgimento della sua autonoma missione universale.
2. Il nucleo della ideologia occidentale è la nozione di libertà-diritto che spetta alla persona umana tanto sul piano individuale quanto nella sfera pubblica che deve essere a tale principio adeguatamente adattata. E’ questa la “punta di diamante” che ha sempre accompagnato, in forma più o meno palese, spesso come copertura giustificativa, le armi e gli interessi dell’occidente nelle loro avventure nel mondo. Eppure è quella che ha lasciato traccia più duratura e che ha maggiormente catalizzato il timore degli autocrati e dei dittatori sparsi nel mondo. L’ultima, “parossistica” manifestazione di questa capacità degli Stati Uniti di mescolare il “sacro” e il profano si è palesata nella decisione di Washington di invadere l’Iraq di Saddam Hussein: alla corposità degli interessi geo-strategici ed economici corrispose un’altrettanto evidente e dichiarata intenzionalità di portare e di impiantare in quel paese la democrazia e i diritti umani. Sappiamo bene a quale “eterogenesi dei fini” abbiamo assistito in quella vicenda e quale lezione sulla non-esportabilità della democrazia l’occidente ha dovuto apprendere. Non si può negare che nelle iniziative occidentali degli ultimi due decenni nei confronti della Russia non sia mai mancato l’auspicio, se non il concreto proposito più o meno mascherato, di provocare un’alterazione negli equilibri moscoviti, inserendovi la libera dialettica della democrazia. Le stanze del potere che hanno registrato con maggiore costernazione e disagio l’epilogo della vicenda libica devono essere state quelle del Cremlino. Negli oltre mille anni di storia russa, le condizioni geopolitiche, sociali, economiche e culturali della Moscovia hanno fatto sì che si producesse un clima favorevole all’autocrazia refrattaria alle contaminazioni dell’Europa e, quando sul finire del XIX secolo il regime zarista si stava effettivamente aprendo a evoluzioni foriere di qualche solido sviluppo democratico, la speranza venne sequestrata dal marxismo-leninismo. Pensare che su tale sfondo si possa trapiantare nell’arco di pochi anni il sistema democratico all’occidentale rileva più di uno scriteriato ottimismo che di un riflettuto disegno razionale. I tempi lunghissimi della maturazione della storia non coincidono quasi mai con i tempi della politica.
3. I paesi dell’Unione europea, anche sul piano militare convenzionale, sono dei “nani” paragonati alla Russia, alla mercé di questa e da questa “ricattabili” in ogni momento. La sola salvezza per i paesi europei è la protezione assicurata dalla Nato. Ne consegue che, senza una ferma alleanza con gli Stati Uniti, l’Europa non è difendibile nei confronti di un improbabile, ma pur sempre possibile e quindi politicamente non trascurabile, attacco armato da parte di forze russe. Solo un pesantissimo riarmo europeo, di per sé difficilmente sostenibile sotto il profilo economico e politico, potrebbe lentamente cambiare i rapporti di forza. Ogni velleità europea di autonomismo nei riguardi degli Stati Uniti non è quindi ragionevolmente prospettabile. O si sta con Washington o si sta con Mosca. Una terza ipotesi di robusta, autosufficiente neutralità non è tra le nozioni realistiche.
4. La Federazione russa ha alcune caratteristiche che la qualificano certamente quale potenza a raggio mondiale: consistenti forze armate ammodernate nell’ultimo decennio con il primo o secondo arsenale nucleare al mondo; una prestanza geopolitica bicontinentale talché essa è fattore imprescindibile degli equilibri in Europa, nel Caucaso, nel Mediterraneo, in Medio Oriente, in Asia Centrale, nell’Asia Orientale e quindi nel Pacifico; legittima rivendicazione di amplissimi spazi di sovranità, e quindi delle sue inesauribili risorse, nel Polo Artico; un corredo insuperabile di riserve minerali ed energetiche. Difetta certamente di due attributi fondamentali per il rango pieno di superpotenza: esibisce del tutto insufficienti, e anzi in grave progressivo declino, dotazioni demografiche in particolare in relazione alla vastità del territorio, e una scarsa attitudine imprenditoriale per trasformare le risorse in ricchezza, a differenza dei cinesi. Tutto sommato, il profilo di potenza regionale al quale volevano condannarla gli Stati Uniti appare in qualche modo troppo ristretto ed ingiusto. Al riconoscimento, pertanto, di un ruolo di potenza mondiale può legittimamente aspirare Mosca, non meno che al rispetto delle esigenze storiche della sua difesa avanzata e del suo sistema politico interno, sviluppatosi secondo una lunga evoluzione. Le concessioni su Ucraina e Nato
5. A questo punto si possono incrociare le conclusioni provenienti, da un lato, dalla parabola discendente e involutiva ormai delineatasi nell’occidente e, dall’altro, dal ritorno in forza della Russia sulla scena internazionale. Le linee di un eventuale programma potrebbero essere le seguenti: a) rinserrare ancor più i legami di solidarietà atlantica con l’apprezzamento da parte europea della insostituibilità dell’amicizia strategica con Washington, al di là delle inevitabili differenze di interessi economici. b) statuire formalmente che l’Alleanza atlantica non intende spostare ulteriormente ad est i propri confini; c) assumere l’impegno da parte dell’occidente di non intraprendere alcuna iniziativa, quanto meno a livello governativo, intesa a sovvertire in senso democratico gli assetti di potere nella Federazione russa e in altri paesi alleati della stessa; d) riconoscere a Mosca, soprattutto da parte degli Stati Uniti, il ruolo di grande potenza a raggio mondiale e con essa avviare una serena consultazione in vista della soluzione delle crisi che si prefigurano sulla scena internazionale; e) legittimare, per stringenti ragioni storiche, il passaggio della Crimea dalla sovranità ucraina a quella russa; f) riaffermare la legittimità del potere di Kiev e della sua pretesa a esercitare la pienezza della sovranità su tutta l’estensione del residuo territorio ucraino, a eccezione di quelle zone orientali dove l’insurrezione armata – sia pure potentemente spalleggiata da Mosca – ha palesato il chiaro orientamento di popolazioni di lingua russa a non perdere il vincolo che le unisce alla Russia. Qui bisognerà individuare forme di condivisione dell’esercizio del potere fra i due poli, Kiev e gli insorti, sulla scia tracciata dagli accordi di Minsk II con la certezza che la ritrovata fiducia reciproca potrà far maturare più facilmente le ardue soluzioni finali. Il governo ucraino dovrebbe, d’altra parte, rinunciare a chiedere l’adesione alla Nato, mentre dovrebbe essere lasciato libero di scegliere la propria collocazione in campo economico internazionale. La stessa ritrovata fiducia reciproca potrà coadiuvare nella ricerca di formule contemperanti i contrapposti interessi nelle altre situazioni in bilico (come ad esempio la Moldova e la Georgia); g) ufficializzare l’attuale cristallizzazione dei confini in Europa con l’impegno da parte russa di non intraprendere alcuna iniziativa per alterarla. Se alla fine di un duro negoziato si volesse formalizzare il tutto si potrebbe puntare a una “Carta di Helsinki” riattualizzata per sancire una ritrovata comunanza di intenti. Ne seguirebbero quindi la rimozione delle reciproche sanzioni, il riavvio di promettenti traffici e collaborazioni economico-industriali fra le due parti e il ripristino di condizioni di cooperativa distensione. La capitale nella quale siffatta impostazione incontrerebbe probabilmente maggiori resistenze ed ostacoli è Washington, dove la tentazione dell’unipolarismo non è stata ancora definitivamente accantonata.
Tuttavia lo scenario sopra delineato troverebbe una sua compatibilità con il disegno – che sta faticosamente emergendo a Washington – di un equilibrio multipolare e multilaterale mondiale sorretto da sotto-equilibri regionali con protagonisti locali diversi, laddove le intese cui Washington è costretta sin d’ora con Mosca nell’area mediorientale potrebbero essere estese gradualmente su spazi ben più ampi: nella convinzione che la Russia, perduto il “ferro di lancia” dell’ideologia, non potrà mai realmente competere con gli Stati Uniti a livello planetario. E con lo sguardo, infine, rivolto al Pacifico e all’Asia Orientale dove, con il ritmo imperscrutabile della storia, si stanno progressivamente precostituendo le condizioni di uno show down tra Stati Uniti e Cina. In tale ipotesi sarebbe molto più vantaggioso per Washington avere la Russia dalla propria parte piuttosto che allineata nella faticosa alleanza con Pechino, cui essa si è ridotta proprio a seguito della crisi ucraina. La problematica di cui sopra sarà certamente tra le più importanti sul tappeto della prossima Presidenza americana. Non è detto che offra maggiori garanzie di spirito innovativo e lungimirante nell’affrontarla la candidata cui vanno gli auspici e i pronostici di vittoria della gran parte degli osservatori internazionali.
Adriano Benedetti è stato Ambasciatore d’Italia a Caracas dal 2000 al 2003, poi direttore generale degli Italiani all’estero e delle Politiche migratorie al ministero degli Affari esteri dal 2003 al 2008. Quelli che pubblichiamo sono stralci di un suo intervento pubblicato sull’ultimo numero della rivista trimestrale Affari Esteri.