Una scommessa vinta
Aleppo cade. La strategia di Assad e Putin che non ha allarmato il mondo
82 fucilazioni sul posto, dice l’Onu. Tregua last-minute per gli assediati, costretti ad andare verso gli islamisti
Roma. Aleppo cade, come previsto un po’ da tutti ormai da mesi, ed è una scommessa vinta sulla lunga distanza dal regime di Assad. Vinta su due piani. Il primo è che un incremento progressivo della violenza non avrebbe fatto scattare una reazione della comunità internazionale, come infatti è successo. Nel luglio 2012 visitai il quartiere di Bustan al Qasr, uno dei primi a ribellarsi e uno degli ultimi a cadere sotto il controllo delle forze filogovernative (tocca scrivere così, “filogovernative”, perché non si sa con esattezza chi siano: nel caso dell’avanzata di martedì, è una milizia irachena che si fa chiamare Harakat al Nujaba). In quei giorni c’erano già stati alcuni bombardamenti aerei da parte del governo, ma erano ancora rari – e ci si chiedeva se ci sarebbe stata davvero una escalation di brutalità.
Gli elicotteri di modello sovietico apparivano con la loro sagoma nuova negli spicchi di cielo tra un condominio e l’altro (Bustan al Qasr ha palazzi popolari altissimi), e la folla sotto – che era occupata a fare cose normali, c’erano pure venditori di meloni accanto ai checkpoint – ondeggiava, guardava in alto, seguiva con gli occhi, ma poi tornava alle sue cose. Quando due anni più tardi, nell’estate 2014, sono passato per gli stessi luoghi di Aleppo al di fuori del controllo del governo, la scommessa fatta da Damasco era ormai più che mezza vinta: dove prima c’era la folla che rumoreggiava nervosa non c’era più nessuno, marciapiedi deserti, palazzi ancora in piedi ma non tutti, facciate scavate dalle esplosioni, macerie ammucchiate ai lati delle strade per far passare le auto, anche se di auto ne passavano pochissime. Assad aveva alzato il livello della violenza con successo, in un modo impensabile fino a due anni prima, e ormai sembrava normale.
Ricordo che un barile bomba era caduto a distanza e al boato il mio accompagnatore aveva scrollato le spalle come se fosse una cosa senza importanza – il barile bomba: l’arma più economica che deliberatamente colpisce in modo casuale, lasciata cadere dagli elicotteri da altezza di sicurezza (per evitare sorprese da terra) e incapace di distinguere dove andrà a esplodere. Fino ad arrivare a martedì, con la vittoria e la violenza finale del governo contro l’ultimo scampolo di Aleppo ribelle: fucilazione sul posto per 82 civili, inclusi donne e bambini, raggiunti dall’avanzata assadista, secondo fonti dell’Onu. Gli altri assediati usciranno dalla città grazie a un accordo di tregua raggiunto nel pomeriggio: prima i civili e poi i ribelli. Ma non andranno a nord, verso gli altri ribelli che combattono contro lo Stato islamico assieme ai soldati turchi. Sono costretti ad andare verso ovest, verso le fazioni islamiste che allignano nella zona di Idlib.
Assad ha vinto la scommessa anche sul secondo piano, quella delle sue alleanze internazionali, che avrebbero retto sempre e comunque. Russia e Iran non hanno mai abbandonato il presidente siriano, anzi, hanno raddoppiato gli sforzi per tenerlo al potere. martedì un editoriale del Wall Street Journal (per i più distratti: non è un giornale filo al Qaida) accusava il presidente russo Vladimir Putin di parlare in “doublespeak” a proposito della Siria: una lingua falsa, in cui dice di voler combattere contro lo Stato islamico ma in realtà lascia Palmira all’Isis per bombardare Aleppo (dove l’Isis non c’è). Il Financial Times (il giornale della City, e anche questo non è filo al Qaida) martedì ha titolato così la sua analisi: “Teheran è la vera vincitrice della battaglia di Aleppo”, perché la sconfitta della ribellione urbana crea di fatto “un territorio vassallo dell’Iran da Baghdad in Iraq a Beirut in Libano” (passando, appunto, per la Siria). E martedì, come dimostrazione plastica che la Russia e Assad fanno meno di tutti gli altri contro l’Isis, il Pentagono ha annunciato di avere eliminato con uno strike di precisione a Raqqa tre capi europei dello Stato islamico coinvolti nelle stragi di Parigi.