Ultime convulsioni della bolla liberal per convincere i “grandi elettori” a non votare Trump
I tentativi di fermare il presidente eletto: lettere, appelli delle celebrità, lacrime asciugate
Milano. L’elezione ufficiale di Donald Trump è arrivata: lunedì, il 19 dicembre, i grandi elettori nomineranno il presidente eletto, e da quel momento in poi non si parlerà che del giorno dell’inaugurazione, il 20 gennaio, quando lo show trumpiano si sposterà definitivamente alla Casa Bianca. Mai come quest’anno, i grandi elettori hanno avuto tanta visibilità – anzi, a dirla tutta non ci eravamo mai occupati di loro, le elezioni finiscono quando il popolo ha votato, il resto è procedura. Ma questo 2016 è tutto diverso, e allora no, i grandi elettori contano eccome, soprattutto se sono disposti a fare l’impensabile, cioè ribaltare con la loro indignazione il risultato, che ha consegnato a Trump 306 grandi elettori (Hillary Clinton ne ha 232) ma che ha dato a Hillary quasi tre milioni di voti in più rispetto a Trump. Il voto popolare è straordinario, un caso quasi unico nella storia, ma l’elezione del presidente degli Stati Uniti non è diretta, ci sono i grandi elettori per l’appunto, e quindi la corsa disperata per riportare il mondo al punto in cui si sperava che fosse – Hillary alla Casa Bianca, #StillWithHer – assume l’aria comica di uno sconclusionato golpe democratico. Sul sito directelection.org, Jeff Strabone ha raccolto gli indirizzi di 283 grandi elettori di stati vinti da Trump, ha preparato lettere facilmente scaricabili che possono essere inviate a questi signori, personalmente o in gruppo o come si vuole: per scrivere a tutti ci vogliono due ore e 133 dollari, uno sforzo sopportabile per levarsi di torno Trump, no? In fondo, “bastano” 37 grandi elettori ribelli – un’enormità – per farcela, e la petizione su Change.org che vuole Hillary presidente, in quanto vincitrice del voto popolare, è stata firmata da 4,8 milioni di persone.
Intanto alcune celebrità, noncuranti dell’irrilevanza già mostrata nella campagna elettorale, hanno girato un video-appello per convincere questi 37 grandi elettori a prendersi sulle spalle il destino del paese e fare quel che è giusto: votare contro Trump. Tutti i commentatori spiegano che se mai dovesse accadere una cosa del genere – paragonabile a un “Hail Mary pass” nel football, scrive Usa Today – non è che Hillary andrebbe alla Casa Bianca: toccherebbe al Congresso, a maggioranza repubblicana, decidere un candidato sostituto, e ci sarebbero 63 milioni di elettori di Trump da gestire – e sarà che leggiamo troppi giornali liberal, però ecco: non hanno un’aria docile. Ma neppure la prospettiva di una guerra civile placa gli abitanti della cosiddetta “Bubble”, la bolla in cui Trump non è mai accaduto, che anzi continuano a crogiolarsi nella loro presunta superiorità. L’ultimo numero del New York Magazine, con le celebri “ragioni per amare New York” (e l’aggiunta, per l’occasione tragica: “Subito, mai come ora”), è la sintesi glam dell’incapacità di comprendere che non solo si è perso, ma non si è nemmeno capito nulla.
David Wallace-Wells s’incarica di spiegare la ragione numero uno dell’amore, e comincia così: “La città è sempre stata un rifugio. In tv, nella notte elettorale, la parola che è stata usata è stata ‘bubble’. But what a bubble”, siamo l’80 per cento di questa città, e tra rifiuto di quel che è accaduto e angoscia, possiamo consolarci tra di noi, asciugarci le lacrime (lui dice che ha pianto per ore, a occhi chiusi, la notte elettorale), guardare la vita che va avanti, perché siamo forti e resisteremo, e controllare Trump, che è figlio di questa città, e chi meglio di noi, l’80 per cento, saprà tenerlo a bada, contenerlo, magari cacciarlo quando mostrerà la sua faccia orribile? In tutte le 47 ragioni per amare New York, si sente l’urlo della bolla inconsolabile, i bambini che non costruiranno mai un muro qui, e l’illusione ferita di Brooklyn di diventare la “capitale dell’America”. Il cordoglio è ancora toccante, poi lunedì finirà, e chi ancora soffre potrà forse provare a sentirsi orgoglioso di essere un cittadino dell’America, il paese che non cambia le regole una volta che la partita è finita.