Il centro come creatore di cambiamento. Ma il leader dov'è?
Idee da sinistra per non escludere nessuno e rimanere liberali. Da Blair a Trudeau, con affanno
Milano. Ieri sono stati pubblicati alcuni nuovi sondaggi sui partiti inglesi, che registrano il consueto vantaggio dei Tory rispetto al Labour, consolidando un predominio che va avanti da parecchio tempo. Ma nell’analisi dei dati, c’è un elemento meno centrale ma importante: rispetto all’ultima rilevazione, il Labour ha perso il 4 per cento dei consensi, mentre i lib-dem hanno incrementato i loro del 4 per cento. Effetto Brexit?, hanno sottolineato molti commentatori. Stabilire una relazione diretta tra quel che perde il Labour e quel che guadagnano i liberaldemocratici non è possibile, ma certo è che questi ultimi erano pressoché moribondi – anzi, morti – e ora stanno rinascendo, perché portatori di un’idea chiara e definita: no Brexit, o al limite soft-soft Brexit. Il partito del rimorso, si sa, non può andare molto lontano, ma l’idea di poter ricostruire dopo lo choc del referendum sulla Brexit una nuova compagine politica sta piano piano prendendo piede.
Il mattatore di questa iniziativa è Tony Blair, ex premier laburista che continua a rilasciare interviste e a fare dichiarazioni sul tema che più ha a cuore: costruire un “centro muscolare” da cui partire per combattere il populismo di destra e riformulare una proposta progressista e liberale. Blair è tra gli uomini più detestati del Regno (fuori da lì forse ancora di più), lui non vuole capacitarsene, ma è così: alcuni suoi sostenitori pensano che l’ex premier possa avere anche le migliori idee del mondo, ma dette da lui finiscono offuscate dal disprezzo. Quindi c’è ancora molta perplessità sulla possibilità che sia Blair il cantore di questa marcia progressista: quel che è certo è che lui le idee ce le ha, e chiare.
Di recente Blair ha risposto, per il magazine The New European (che sta facendo una campagna natalizia di abbonamenti anti Brexit molto divertente), a molte domande sull’uscita del Regno Unito dall’Unione europea, su Donald Trump e sulla guerra in Iraq. Sulla Brexit, Blair non ha paura di violare il mandato popolare – che è quel che tutti gli contestano: abbiamo votato, abbiamo scelto il “leave”, datecelo – ma anzi vuole che sia rispettato fino in fondo, al punto di accettare il fatto che chi ha votato per la Brexit si accorga che immaginava qualcosa di diverso, e abbia la possibilità di cambiare idea. Al momento non si parla di un nuovo referendum: intanto “controlliamo bene il processo”. Gli attori di questo controllo sono tanti, di destra, di sinistra, dei liberaldemocratici, non ci sono colori né appartenenze se non la volontà di non rimanere scottati dalla Brexit e in generale dall’ascesa di istanze poco liberali. Blair segnala che ci sono molte organizzazioni che lavorano in questo senso, non soltanto lui, cita Open Britain, Common Ground, More United, ma poi concede: “A un certo punto ci sarà bisogno di un coordinamento”, come a dire: ci sarà un movimento, per forza, ma forse la cautela è dettata dal fatto che lui stesso sa di non essere al momento un leader sufficientemente popolare. Blair si accontenta del proprio ruolo di mentore, sa di avere “un bagaglio” ingombrante che gli impedisce di muoversi libero (l’Iraq ovviamente), ma ripete: ci tengo al paese, ci tengo a voi.
“Questo è un momento di cambiamento e di preoccupazioni – dice – ma tocca al centro dare risposte. Il centro deve diventare il posto in cui si fanno i cambiamenti”. Come si costruisce questo centro? Andiamo un po’ nello specifico: Blair non vuole passare con il partito liberaldemocratico (dice un no con punto esclamativo alla domanda), è convinto che se dovesse scegliere oggi in che partito iscriversi sceglierebbe sempre e comunque il Labour, anche se alla domanda “quando il Labour tornerà al potere?” risponde senza rispondere, ammettendo che si tratta di un caso classico in cui i politici tergiversano pur di non dare una risposta specifica. “Non c’è appetito per un nuovo partito”, dice, ma “corriamo il pericolo di dover scegliere tra un Hard Brexit Tory Party e un Hard Left Labour”, che non è esattamente una scelta ottimale per un moderato. Così il centro che non trova una casa deve provare intanto a costruire un’agenda politica, a connettersi con chi la condivide – parliamoci, contiamoci – e poi strada facendo “un leader arriverà”.
Ci vuole un’Europa aperta, una formula aperta, dice Blair, “prepariamoci a unirci con tutti quelli che, nel più ampio spettro politico, vogliono condividere questa idea”. L’ex premier inglese parla al suo paese ma non soltanto, il problema è comune, soprattutto nel continente europeo in cui le sinistre sono rimaste senza leader. In Francia, dove lo scontro è prossimo per via delle primarie di gennaio, si litiga sulle parole, con il candidato della sinistra radicale Arnaud Montebourg che dice al candidato della sinistra liberale Manuel Valls che il suo è “un liberalismo autoritario”. Si rischia una grande dispersione di voti, e di idee, che già non sono moltissime. Il premier canadese, Justin Trudeau, star del mondo liberal appena un po’ offuscato dalla penosa querelle sul trattato di libero scambio con l’Europa, ha rilasciato ieri un’intervista al Guardian in cui diceva di essersi accorto da tempo che “la globalizzazione non funziona per le persone normali”, per la middle class, e di aver elaborato una risposta: apertura al commercio, all’immigrazione, alla diversity. Ora iniziano i test per la sua leadership, ma Trudeau è convinto che i suoi binomi, immigrazione-sicurezza insieme, ambientalismo-crescita insieme, siano sostenibili dal punto di vista del bilancio economico e di quello sociale, per contrastare uno status quo che a oggi è inaccettabile, per la middle class e per le sinistre. Contro lo status quo, verso il cambiamento. Ci si rivedrà sotto una “big tent”, un giorno.