Dalla culture war alla media war
Così i giornalisti sono diventati i bersagli fissi della guerra di Trump
New York. Dopo mesi passati a cercare di capire quale fra le questioni programmatico-retoriche di Donald Trump le riassume tutte, per discernere se il punto focale del trumpismo è il muro con il Messico, l’avversione all’islam, il contrasto al libero commercio, l’isolazionismo o qualcos’altro, Michael Wolff ha trovato la risposta. La guerra ai media è la costante nel mare burrascoso delle variabili trumpiane. La sua culture war non è sull’aborto o sul matrimonio omosessuale, questioni che sfiorano il suo orizzonte soltanto di rado e per ragioni di squisito posizionamento tattico, ma coincide con la media war. Il vantaggio è che si tratta di un avversario che alimenta all’infinito la dinamica belligerante, cosa che permette al presidente di sfruttare le armi altrui a suo vantaggio: “Più Trump fa dei media il suo sacco da boxe, più i media reagiscono con una voce sola contro di lui, e questo prova in maniera sempre più chiara la tesi di Trump, cioè che i media rappresentano il mondo che si contrappone a lui e ai suoi sostenitori. Perciò Trump continua a bastonare i giornalisti”, scrive il biografo di Rupert Murdoch su The Hollywood Reporter.
I giornalisti sono passati “dal racconto alla resistenza, e ora raccontano l’apocalisse di Trump invece dell’Amministrazione Trump” e attraverso editoriali, campagne social e “omelie televisive” manifestano l’indicazione dominante per la copertura a schiena dritta: “Trump deve essere trattato come una canaglia che ha occupato la Casa Bianca”. Un sogno per chi ha abbracciato quarant’anni fa la nozione che non esiste cattiva pubblicità. Giornali e televisioni ripetevano invece che la cattiva pubblicità esiste, eccome: se lo presentiamo come un fascista, sessista, razzista, furfante, disonesto, bancarottiere, evasore, manipolatore e bugiardo il popolo non potrà certo fidarsi di lui, dicevano, prendendo l’epocale cantonata confermata da riconteggi e ribellioni di grandi elettori che non si sono mai verificate. Il vigore della resistenza giornalistica è stato e continua a essere tale che Trump ha elevato la categoria a bersaglio fisso in mezzo a una serie di target mobili, fondando la sua culture war sugli stessi princìpi che segue da decenni. Soltanto che quando la sua fama nazionale e internazionale è cominciata Twitter non c’era.
Il presidente eletto non si è affermato a dispetto del posizionamento di tutto l’arco mediatico contro di lui, ma proprio in virtù della sua opposizione militante. Wolff svela un altro dettaglio della dinamica autodistruttiva dei media che attaccando Trump lo hanno legittimato e rafforzato: lui desidera essere presentato come un’anomalia del sistema, un numero primo, non come l’erede di una tradizione culturale e politica americana. “Una conseguenza diretta della dichiarazione dei media secondo cui niente di tutto quel che vediamo è normale, è quella di elevare qualunque cosa al rango dell’eccezionalità. E’ esattamente lo status ‘guardatemi’ che Trump cerca”, scrive il critico. Nel tempo il presidente eletto ha affinato l’arte di mettere i media contro loro stessi. Quando ha incontrato a microfoni spenti un manipolo di anchorman, i suoi consiglieri hanno passato al New York Post la versione, fasulla, che Trump avesse schernito e coperto d’insulti i presenti, senza che nessuno reagisse. E voi non avete detto nulla a quel pacchiano fascista?, è stata la reazione all’unisono di tutti quelli che non erano stati invitati. Trump era riuscito a menare per il naso gli uni e gli altri.
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