La “ex al Qaida” tiene in scacco i resti della rivoluzione siriana
Dopo la conquista di Aleppo l’offensiva russo-iraniana-siriana si sposta a Idlib dove gruppi non estremisti contano troppo poco
Roma. Ora che è caduta Aleppo, molti gruppi armati che fanno la guerra al presidente siriano Bashar el Assad si concentrano a ovest, nell’area della città di Idlib, ed è lì che bisogna guardare per capire cosa succederà nel seguito della guerra civile (altri gruppi combattono contro lo Stato islamico assieme ai soldati turchi vicino ad Aleppo ma a nord, e altri ancora tengono le loro posizioni vicino alla capitale Damasco). Il gruppo più conosciuto è la Jabhat Fateh al Sham, l’esercito per la conquista del Levante, che fino a luglio è stata la divisione di al Qaida, prima di una presa di distanze a cui nessuno crede. Ieri il gruppo ha preso le distanze anche da un comunicato farlocco che rivendicava l’uccisione dell’ambasciatore russo Andrey Karlov ad Ankara: un falso. E ha anche preso le distanze da un video orrendo in cui un estremista manda una bambina di nove anni, sua figlia, a farsi esplodere in una stazione della polizia siriana. “E’ un pazzo, con noi non c’entra nulla da tempo”. Ma a dispetto di tutto questo prendere distanze, il gruppo filo al Qaida è una presenza tossica per tutti gli altri: rende tutti un bersaglio legittimo per i bombardieri siriani, russi e anche americani, rapisce giornalisti e operatori umanitari, eccita la macchina della propaganda governativa (che dipinge tutti gli oppositori come qaidisti) blocca ogni ipotesi di aiuto dall’esterno – perché quale governo vorrebbe essere accusato con prove di fornire armi o altra assistenza anche ad al Qaida?
La Jabhat al Nusra (pure se rinominata) tiene in ostaggio con la sua presenza molti altri gruppi, che – a differenza di quello che si sente dire – non appartengono al campo dei salafiti-jihadisti, ma “sono laici nello stesso senso che diamo noi all’aggettivo”, dice Aron Lund, che fin da prima della guerra civile era già un ricercatore specializzato in Siria per il think tank Carnegie. Sigle come il Free Idlib Army, il Jaysh al Tharir (in arabo: l’esercito del cambiamento), la Prima brigata della costa (che si riferisce alla costa del Mediterraneo, quindi provincia di Latakia) e altre ancora indicano gruppi non jihadisti che hanno passato una selezione dell’intelligence americana per ricevere armi controcarro da usare in battaglia contro le forze che combattono in nome di Assad. Del resto, se condividessero l’ideologia qaidista dopo cinque anni si sarebbero fusi con i rappresentanti di al Qaida, ma se ne sono sempre tenuti distaccati. Tuttavia nessuno di questi gruppi, come nota Aymen al Tamimi, un ricercatore inglese che lavora sui gruppi armati siriani da Israele, è forte abbastanza per sfidare la Jabhat al Nusra in una sfida diretta. E per questo sono destinati ad affondare nella stessa barca, ovvero a subire nella stessa zona l’offensiva mista russo-iraniana-siriana che presto o tardi arriverà nella zona di Idlib.
Ieri in quell’area si aspettava una decisione importante, la possibile fusione tra la Jabhat al Nusra (o Jabhat Fateh al Sham che dir si voglia) e uno dei gruppi più importanti della guerra siriana, Ahrar al Sham, di rigido orientamento salafita ma non interessato a programmi internazionali come al Qaida e sponsorizzato con discrezione dal governo turco. In molti attendevano la notizia di una fusione, soprattutto dopo il disastro militare di Aleppo, dove oggi l’arcinemico dei gruppi armati, il generale iraniano Qassem Suleimani, passeggia per la cittadella vecchia della città (che è stata in mano ai guerriglieri per quattro anni). Invece i capi di Ahrar al Sham hanno votato e hanno respinto la fusione, perché è probabile che puntino ancora sulla speranza esilissima di qualche aiuto dall’esterno.
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