Tutti i Goldman di Trump

Sono i banchieri del più forte tra i poteri forti. E anche Donald, che prima li disprezzava, ora li assume

"Conosco quelli di Goldman Sachs. Hanno il totale controllo su di lui, così come hanno il controllo totale su Hillary Clinton”. All’inizio del 2016 Donald Trump bastonava Goldman Sachs soprattuto per danneggiare l’avversario del momento,Ted Cruz, colpevole contemporaneamente di avere ricevuto donazioni mai dichiarate dalla banca d’affari, di essere titolare di una linea di credito a interesse agevolato presso lo stesso istituto e di avere sposato una manager di Goldman. Trump ha battuto come un forsennato su questo tasto per danneggiare il senatore del Texas, bersagliato dai tweet per conclamati o impliciti legami con la banca simbolo del potere globalista che promana da Wall Street. “C’è un altro prestito che Cruz ha DIMENTICATO di dichiarare. Goldman Sachs lo possiede, farà tutto quello che gli dicono. Non un grande riformatore!”. Affettava stupore per le promesse di bastonare le canaglie di Wall Street: “E adesso indagherà Goldman Sachs? Non funziona così. Goldman Sachs lo controlla. Ricordatevelo, amici: lo controllano”. Nelle parole di Trump, Cruz non era che una marionetta mossa dalla banca di Wall Street. “Dice che ho sostenuto il Tarp, che ha dato 25 milioni di dollari a Goldman Sachs, la banca che gli ha prestato i soldi che lui non ha dichiarato. Marionetta!”. Quando Cruz è stato sconfitto ha continuato l’attacco martellante a Goldman semplicemente cambiando il nome dell’avversario. Hillary è diventata la pedina manovrata dalle mani luride di Goldman, l’eroina sponsorizzata dai banchieri che guidavano l’amministrazione del marito, quella che negli strapagati incontri a porte chiuse della banca esprimeva la sua preferenza per un mondo senza confini, il sorosiano sogno della ultraglobalizzazione concepito in uno chalet di Davos. L’ultimo spot televisivo di Trump prima delle elezioni è giocato sul contrasto fra i volti tristi ma veri della working class americana e quelli patinati e tronfi degli wolf of Wall Street che li hanno ricacciati nella povertà. Al culmine di questo crescendo narrato dalla stessa voce di Trump compare il volto di Lloyd Blankfein che parla alla Clinton Global Initiative.

 

All’inizio del 2016, nelle parole di Trump l’avversario Ted Cruz non era che una marionetta mossa dalla banca di Wall Street

Quest’anno Blankfein ha festeggiato i suoi dieci anni da amministratore delegato di Goldman. La crisi finanziaria non lo ha sfiorato. Il suo predecessore era Hank Paulson, che da segretario del Tesoro ha architettato il salvataggio delle banche, fra cui quella che aveva guidato. Il nome di Goldman Sachs è incastonato nella parte più profonda dell’immaginario complottista americano, è il simbolo di un’ideologia plutocratica globale che evoca le fantasie giudaico-massoniche preferite dai commentatori radiofonici della destra nazionalista, è il più forte fra tutti i poteri forti, quello che supera da ogni parte la destra e la sinistra, i democratici e i repubblicani, unendoli nel suo mortale abbraccio. Il mito è più vasto di qualunque candidato alla presidenza, tanto che in questa campagna si è diffusa la fake news perfetta per la stagione: nel 2013 a una riunione a porte chiuse organizzata da Goldman, Hillary Clinton avrebbe detto che Trump era il candidato perfetto per la presidenza degli Stati Uniti. La parte reale del mito è quella che viene chiamata “Government Sachs”. Le amministrazioni di qualunque segno politico abbondano di segretari, consiglieri ed eminenze grigie affiliate in qualche misura all’istituto famoso per le porte girevoli che poi dal settore pubblico riportano agli affari privati. Il 90 per cento dei lobbisti di Goldman ha lavorato in precedenza per il governo.

  

 

Anche qui si tende spesso a esagerare. Visto il clima da torce e forconi quando è stato eletto alla Casa Bianca, Barack Obama ha evitato di nominare almeno alla segreteria del Tesoro uno che veniva da Wall Street e ha scelto Timothy Geithner, che aveva fatto tutta la carriera nel settore pubblico. Si è diffusa però la leggenda che anche lui fosse un uomo di Goldman, durante molti incontri pubblici ha dovuto interrompere i maestri di cerimonie che nel suo curriculum aggiungevano un inventato incarico precedente nella banca. Anche il Washington Post ci è cascato. Certo, il suo capo di gabinetto, Mark Patterson, da Goldman veniva per davvero. E certo, l’uomo che gli ha fatto fare carriera al Tesoro si chiama Robert Rubin, che negli anni Novanta è stato prima il dio di Goldman e poi quello dell’amministrazione Clinton. Ed è stato anche entrambe le cose contemporaneamente. Nel secondo mandato, le acque erano sufficientemente calme perché Obama potesse scegliere un sostituto che aveva avuto qualche esperienza a Wall Street come Jack Lew, altro secchione da governo federale che però aveva sul curriculum una parentesi a Citibank. Prendere un uomo di Goldman sarebbe stato tuttavia un po’ troppo.

 

Un nome incastonato nella parte più profonda dell’immaginario complottista americano, il simbolo di un’ideologia plutocratica globale

Trump sapeva benissimo tutto questo. Jesse Ventura, ex wrestler, governatore del Minnesota e in qualche modo suo mentore politico, è stato a lungo un propalatore di cospirazioni sul potere della banca di Wall Street, spesso spalleggiato da Alex Jones, il complottista più amato dai trumpiani. Con calcolato furore ha bastonato per mesi la banca d’affari che ha un antico sodalizio con la famiglia Clinton, ma quando ha vinto le elezioni e si è trovato a formare la squadra di governo, senza fare una piega ha pescato nel bacino degli avversari che tenevano in pugno tutto l’establishment, da Cruz ai Clinton. Il “Government Sachs” continua, incurante della promessa da campagna elettorale di spezzettare le grandi banche di Wall Street. 

 

Steve Bannon, capo della strategia e uomo più vicino al presidente eletto, ha iniziato la carriera a Goldman, dove si è specializzato in fusioni e acquisizioni nel settore dell’intrattenimento. Per caso, si fa per dire, ha comprato delle partecipazioni nello show “Seinfeld” prima che diventasse oggetto di culto. Negli anni Novanta assieme a un gruppo di colleghi ha lasciato Goldman per fondare Bannon & Co., società specializzata nei media. In un’intervista per un documentario francese di qualche tempo fa ha detto: “Goldman Sachs rappresentava l’eccellenza e la meritocrazia. Non importava da dove venivi, non importava in quale università ti eri laureato, di che religione e quale etnia fossi. L’unica cosa che importava era quanto lavoravi, quanto eri capace, se eri un buon banchiere per i tuoi clienti. Era come entrare nei gesuiti. Tutto questo oggi sembra sorpassato, era prima del grande processo di finanziarizzazione, prima che tutti questi matematici arrivassero davvero a Wall Street”.

 

Il prossimo segretario del Tesoro, Steve Mnuchin, ha passato diciassette anni a Goldman prima di andare a fare i soldi a Hollywood. Anche suo padre è un adepto della banca, che ha servito con lealtà in posizioni apicali per tutta la carriera. Secondo una delle più importanti associazioni critiche verso Wall Street, Mnuchin si è arricchito con la crisi immobiliare che ha generato il crac finanziario “sfrattando in modo aggressivo decine di migliaia di famiglie” dalle case che avevano perso. Il segretario promette di revocare le parti sostanziali della regolamentazione finanziaria Dodd-Frank, scelta assai gradita a Wall Street. Nel 1999 ha comprato da una zia un appartamento al numero 740 di Park Avenue, che non è un indirizzo qualunque della Manhattan che conta ma è il palazzo costruito dal nonno di Jackie Kennedy che incarna il potere della old money democratica. Non basta essere ricchi per accedere in quella speciale loggia del potere newyorchese. Per qualche settimana dopo le elezioni si è fatto il nome di Jamie Dimon, ceo di JP Morgan, come possibile segretario del Tesoro, ma molti osservatori ridevano di questa voce, notando che Dimon è stato sempre un sostenitore del Partito democratico. Con Mnuchin il segno politico non è cambiato. Il finanziere ha avuto la scaltrezza di saltare sul carro di Trump quando era pieno di materiale radioattivo, ma il suo cursus honorum di finanziatore politico parla di una solida affiliazione democratica, in perfetto stile Goldman. Ha contribuito a quattro campagne elettorali di Hillary, a quella di Al Gore,

Negli anni 90 “rappresentava l’eccellenza e la meritocrazia. Non importava da dove venivi… Era come entrare nei gesuiti”

ha sostenuto Obama nel 2008, ha pagato l’obolo – fra gli altri – a Chuck Schumer e John Edwards, Jon Corzine e Chris Dodd. E’ anche promettendo la sua nomina al Tesoro in caso di vittoria negli incontri a porte chiuse che Trump ha allargato la base di alleati e finanziatori nell’ultimo, decisivo strappo della campagna elettorale. Si dice che se fosse stata eletta Hillary forse alla segreteria del Tesoro avrebbe nominato Blankfein, l’amministratore delegato che “ha derubato la working class americana”, come recitava uno spot di Trump, ma il “Government Sachs” aveva pronta l’alternativa per non farsi tagliare fuori nemmeno in caso di vittoria repubblicana. Invece del ceo, Trump ha assunto il presidente. Gary Cohn sarà il prossimo capo del National Economic Council, un ruolo che è stato creato dall’amministrazione Clinton ritagliandolo sul profilo di Rubin, il sommo decano di questo governo sotterraneo e trasversale. Il nonno materno di Rubin era, fra l’altro, un personaggio centrale della politica locale di Brooklyn nell’epoca in cui gli appalti edili e le rotte dei fondi pubblici si tracciavano nei “club politici”. E’ stato grazie ai suoi favori che il padre di Trump, il costruttore Fred, è entrato nel ricchissimo giro dell’edilizia convenzionata della periferia di New York. Tutto torna, tutto si tiene.

  

A guidare assieme a Rubin Goldman negli anni Novanta c’era Stephen Friedman, che poi nel 2002 è stato chiamato da George W. Bush a guidare – anche lui – il National Economic Council. Due anni dopo la sua nomina in questo ruolo inedito, Rubin è diventato segretario del Tesoro. Il giornalista economico Daniel Gross ha scritto che questo ruolo “consiste per la maggior parte nel sedere in sale conferenze eleganti, intrattenere ospiti che vengono a cercare favori, partecipare a incontri esclusivi, persuadere suoi pari, partecipare a incontri telefonici e fare leak selettivi ai giornali amici”. La posizione perfetta per Cohn, rappresentante del “Government Sachs” che tutti descrivono come la versione meno brillante e meno assertiva di Blankfein. A completare la galassia goldmaniana

Mnuchin, per 17 anni a Goldman Sachs, sarà segretario del Tesoro. Nel team anche Gary Cohn e Anthony Scaramucci

nel cielo di Trump c’è Anthony Scaramucci detto “The Mooch” e definito anni fa dal blog finanziario del New York Times Dealbook come “un P.T. Barnum con una cravatta di Ferragamo”. Con la sua passione per i luccichii e le feste di Las Vegas e il suo fare italoamericano, Scaramucci è il più trumpiano degli uomini di Goldman risucchiati dal presidente eletto, e subito s’è ritratto all’idea di ricevere una posizione nella Casa Bianca di Trump. Mai, diceva, avrebbe lasciato la sua SkyBridge Capital, fondo d’investimento messo in piedi, dopo vari passaggi, all’indomani della sua dipartita da Goldman, nel 1996, ma adesso ci sta pensando. Tra una trasmissione televisiva e l’altra in cui regala perle ermeneutiche tipo “Trump va preso simbolicamente” cerca investitori per rilevare il fondo e liberargli le mani qualora il presiedente lo destinasse a più alti incarichi nella Casa Bianca. Come diversi suoi colleghi, anche “The Mooch” è un consigliere del World Economic Forum, il ritrovo della finanza globale di Davos che gli elettori di Trump vedono come la manifestazione più turpe del globalismo finanziario.

 

Se il testacoda di Trump, che ora compra ciò che sommamente disprezzava, sembra il massimo dell’ipocrisia, occorre tenere conto che la leggenda nera del “Government Sachs” è cresciuta sul più classico fondo di verità: la banca d’affari è in un certo senso una branca del governo. Trump sceglie uomini con quel pedigree e con quell’affiliazione per riequilibrare e ricucire, per organizzare una squadra di governo che guarda anche verso il centro – o almeno più al centro di quanto si potesse immaginare – e s’affaccia sull’imprescindibile mondo della finanza democratica; ma li sceglie anche perché ha bisogno di persone che sanno guidare un governo, e l’appartenenza alla tribù di Goldman garantisce connessioni e speciali abilità nella gestione degli affari pubblici e privati. Un anno fa Trump diceva alle folle frustrate con tono feroce “conosco quelli di Goldman”, ora li assume.