Come chiamare le vittime dell'estremismo islamico?
Perché dobbiamo chiamare "testimoni dell’occidente" chi è stato ucciso in nome del jihad
Non sono martiri: non hanno scelto loro di morire per mano dei coranisti letteralisti, avrebbero fatto volentieri a meno di finire trapassati da un mitra o fracassati da un camion lanciato sulla folla in nome di Allah. Non sono paragonabili agli ottocento (o-t-t-o-c-e-n-t-o) che a Otranto nel 1480 preferirono la decapitazione alla conversione all’islam pretesa dai turchi che avevano espugnato la città. Ma non si possono nemmeno catalogare come vittime casuali, collaterali: sarebbe disprezzare il loro sangue, cancellarli dalla memoria oltre che dalla vita. Sarebbe non trarre lezione alcuna da tanto dolore. Dunque come dobbiamo chiamare Fabrizia Di Lorenzo, Valeria Solesin, Maria Grazia Ascoli, Mario Casati, Angelo D’Agostino, Carla Gaveglio, Nicolas Leslie, Gianna Muset, gli italiani recentemente caduti nella guerra dichiarata all’Europa in nome di Maometto? Io li chiamo testimoni d’Occidente. Sono stati uccisi in luoghi di turismo o di rock o di shopping prenatalizio, tre trincee d’Occidente, qualcosa come un Carso del Ventunesimo secolo. Manca un Ungaretti, però. Manca una poesia di guerra, mancano un’arte e un cinema di guerra, insomma manca un’epica forse perché gli stati nazionali e il sovrastato Ue negano che la guerra esista. In effetti nessun ambasciatore si è presentato, come usava ai bei tempi, con in mano un cartiglio bellicoso e però cerimonioso, tuttavia i succitati caduti testimoniano che la guerra uccide anche quando non viene dichiarata con i diplomatici crismi, i succitati caduti e gli altri che temo di aver tralasciato perché negli ultimi tredici mesi i campi di battaglia si sono moltiplicati, Parigi, Bruxelles, Nizza, Berlino…
A Valeria Solesin, la vittima italiana del Bataclan, nella sua Venezia hanno prima dedicato un funerale ateo e infine, proprio sotto il Natale che è festa dell’incarnazione, un ricordo platonico, aniconico, un ponticello, e non sembra una reazione all’altezza bensì un’altra tappa dell’agonia europea. Al pieno di una religione sbagliata si è opposto il vuoto di nessuna religione, il collasso (sotto gli occhi di un Patriarca nemmeno lui all’altezza) dei legami che univano piazza San Marco al cielo e alle generazioni passate e alla speranza per quelle future. E si è pensato di commemorare una ragazza uccisa dagli odiatori delle immagini con un monumento privo di immagini. Ma ci sono o ci fanno questi occidentali terminali? Fra qualche anno si passerà sul ponticello, novecentonovantanove su mille scatteranno foto e forse l’ultimo si domanderà: Valeria Solesin, chi era costei? Anche Fabrizia Di Lorenzo è minacciata di ricordino aniconico, una via a Contursi Terme, figuriamoci.
Mentre per secoli il culto dei santi si è nutrito di immagini, quadri, santini, affreschi, icone, statue, il tutto realizzato dai migliori artefici su piazza: ora il necessario onore ai Testimoni dovrà passare attraverso i volti degli assassinati nelle nuove trincee dell’Occidente sotto assedio. “La pittura coi suoi ritratti dice chi siamo noi europei, in cosa ci distinguiamo dalle altre civiltà. L’arte è l’identità dell’Europa” ha detto il regista Sokurov, ossessionato dalla memoria com’è giusto in tempi di Alzheimer continentale. Secondo Marcello Veneziani l’arte sacra non fu contorno, decorazione, ciliegina sulla torta, bensì “base della civiltà cristiana, della carità e dell’umanità, perché se vedi le immagini e i volti di bambini, di donne, di mendicanti, di morenti e di assurti in cielo, sei indotto per analogia ad amare le persone dai loro volti”. Se fossi ministro dei Beni culturali oppure sindaco di Sulmona o di Venezia o di qualunque altra città colpita dal Corano iconoclasta e mortifero organizzerei una grande mostra con i ritratti dei testimoni d’Occidente, realizzati dai più valorosi artisti. Gli assassinati siano immortalati.