Israele e il prezzo dell'eredità di Obama
I liberal divisi sul presidente americano uscente e lo stato ebraico: un fardello in più. Gli europei aspettano l’occasione buona
Milano. Che prezzo ha, in termini di coerenza, alleanze ed eredità politica, la soluzione a due stati per la questione israelo-palestinese? Barack Obama ha fissato il prezzo molto in alto: non ha niente da perdere, non ha elezioni in vista, non ha un partito da salvare (è a pezzi in ogni modo), ha soltanto un’eredità in politica estera da forgiare, all’ultimo, mentre risuona potentissima l’assenza americana nella tregua siglata in Siria. Così Obama ha alzato la posta: s’è astenuto all’Onu sulla risoluzione 2334 che condanna la politica degli insediamenti di Israele e ha fatto sì che il suo segretario di stato, John Kerry, sacrificasse sull’altare di una strategia moribonda – i due stati – un’alleanza esistenziale per l’America e per Israele.
Kerry ha parlato di amicizia, nel suo discorso, stabilendo che gli amici – gli alleati – devono dirsi “le verità più dure”, perché la lealtà è questo: saper dire a un amico quando sbaglia. Ma il punto non è tanto dirsi la verità, quanto in quali circostanze dirsele. Nel 1980, quando all’Onu accadde una cosa simile e il presidente americano era Jimmy Carter (una doppia astensione su due risoluzioni contro gli insediamenti e la politica dei rifugiati palestinesi, a poche settimane dalla fine della presidenza), il Washington Post scrisse un editoriale molto citato in questi giorni che s’intolava: “Unirsi agli sciacalli”. Il Post aveva sostenuto Carter nella campagna contro Reagan, incarnava la visione liberal dell’America e del mondo, ma in quell’editoriale fu fermo con il presidente democratico: mostrare la “dura verità” in un consesso come quello dell’Onu, “un branco di nemici di Israele”, equivale a unirsi a quel branco, e a metterlo prima dell’amicizia. Ci sono molti consessi in cui mostrare perplessità, l’Onu non è tra quelli.
Il prezzo della propria eredità per Obama è il più alto immaginabile, ed è per questo che ha deciso di utilizzare questo ultimo mese di presidenza per ribadire una politica che è da sempre uguale e allo stesso tempo per criticare la politica “molto di destra” del governo Netanyahu, ostaggio dell’agenda dei settlers. Una dichiarazione puramente politica, che in termini tecnici potrebbe essere definita un’ingerenza, ma che vuole sottolineare una differenza presso l’elettorato americano (l’unico che abbia mai contato per Obama): noi democratici vogliamo la pace, coi repubblicani si vedrà. Il Partito democratico non ha apprezzato affatto il lascito del presidente uscente (che ha ignorato il partito per otto anni). Ci sono state critiche da parte di deputati e senatori democratici per l’astensione all’Onu e per il discorso di Kerry: per un partito che deve ricostruire la propria identità dopo una sconfitta elettorale brutale, la divisione su Israele è un fardello invero pesante.
Poi c’è l’Europa, il pubblico più simpatetico nei confronti di Obama. A Parigi, il 15 gennaio, si terrà un incontro voluto dal presidente (uscente pure lui) François Hollande con una settantina di paesi per rilanciare il processo di pace. Per i palestinesi si tratta di una prova generale per quella risoluzione che sognano da sempre, e che (persino) l’Amministrazione Obama non ha concesso, sul riconoscimento dello stato palestinese da parte di tutto il mondo, escluso Israele. Per l’Europa, che ha elogiato il discorso di Kerry, è l’occasione di poter dire la propria, dopo aver perso la voce – e taciuto – su tutti gli altri dossier del Mediterraneo. Così il fatto che la strategia dal prezzo alto sia moribonda non conta poi un granché.