Il filo spezzato tra Erdogan e Obama
Colpita dall'Isis, la Turchia se la prende con l’alleato americano
Roma. La polizia turca ha arrestato lunedì i primi otto sospettati legati all’attentato al Reina di Istanbul, il locale sul Bosforo dove la notte di Capodanno un uomo ha aperto il fuoco con un’arma automatica poco più di un’ora dopo la mezzanotte, nel pieno dei festeggiamenti, uccidendo 39 persone e ferendone 65. Tra gli arrestati non c’è il sospetto attentatore, di cui la polizia ha diffuso diverse immagini in giornata. Di lui si sa che è rasato e ha la pelle chiara, che probabilmente viene dall’Asia centrale, che indossava un giaccone nero e soprattutto che è un “soldato del Califfato”. L’Isis ha rivendicato l’attacco di Istanbul lunedì mattina, annunciando che “il sangue dei musulmani versato dai bombardamenti” del “governo apostata” di Recep Tayyip Erdogan “appiccherà un fuoco nel centro della sua casa”.
Istanbul è colpita dal secondo attentato di massa in meno di un mese, dopo quello del 10 dicembre allo stadio del Besiktas (47 morti, rivendicato dagli estremisti curdi), e mentre la caccia all’uomo continua, in Turchia la ricerca dei responsabili va già oltre gli appartenenti all’organizzazione islamista. Gli indiziati sono i soliti: i buchi dell’intelligence, stremata dalle purghe post golpe, la mano libera che il governo turco ha lasciato ai foreign fighter islamisti negli anni scorsi, la radicalizzazione della società, la politica fallimentare di Erdogan in medio oriente. Ma per i giornali filogovernativi il grande colpevole, additato con teorie del complotto e accuse infondate, è uno solo: gli Stati Uniti. Sabah, uno dei principali giornali vicini a Erdogan, ieri ha pubblicato un articolo in cui si faceva capire che la mentre dietro all’attacco erano “gli Stati Uniti, la Nato e certi paesi Ue”.
Altri due giornali governativi hanno pubblicato lo stesso articolo. Uno di questi, Yeni Akit, ha sparato in prima pagina questo titolo cubitale: “L’America è il sospettato principale” dell’attacco. Samil Tayyar, un alto dirigente del partito governativo Akp, ha accusato direttamente Barack Obama e poi la Cia, mentre il proprietario del Reina ha detto ai giornali che gli americani avrebbero avuto favolose informazioni d’intelligence su possibili attacchi (l’ambasciata americana ha smentito). Il direttore del giornale Günes, intimo di Erdogan, ha accusato la giornalista Amberin Zaman, ex corrispondente dell’Economist, di aver organizzato l’attentato. La rivendicazione dello Stato islamico non fa che rafforzare il sentimento anti americano, visto che Erdogan da tempo accusa l’America di non aiutare la lotta di Ankara contro l’Isis, e pochi giorni fa ha detto di avere “le prove, con immagini, foto e video” del sostegno americano allo Stato islamico così come ai combattenti curdi – queste prove però non sono mai state mostrate.
L’allontanamento della Turchia dall’alleanza con gli Stati Uniti e dall’ombrello della Nato non è solo propagandistico e ha delle ricadute immediate nella lotta al terrorismo. Oggi Washington e Ankara giocano due partite concorrenti nella lotta allo Stato islamico in Siria, l’una sempre più disimpegnata – benché i bombardamenti americani non siano mai cessati – e l’altra attivissima nell’enclave islamista di al Bab, dove un’operazione militare di Ankara sta eliminando a suon di strike aerei la presenza dell’Isis nell’area a nord di Aleppo. Sui canali digitali dello Stato islamico ieri si diffondevano immagini dei bombardamenti di al Bab, e l’idea sottintesa era che l’attacco al Reina sia stato una risposta agli strike. Pochi giorni fa l’Isis ha pubblicato un video intitolato “Scudo della croce” (gioco di parole con l’operazione militare Scudo dell’Eufrate che i turchi stanno compiendo in Siria) in cui mostrava due soldati turchi bruciati vivi. Nel comunicato in cui rivendicava l’attacco di Istanbul, lo Stato islamico ha definito la Turchia “protettrice della croce”, collegando così i due eventi. Il gruppo terroristico annuncia attentati in Turchia fin dalla primavera del 2015, ma ormai la retorica è quella della guerra aperta.
In questa guerra, però, Washington e Turchia si trovano sullo stesso fronte solo nominalmente. Come il Foglio ha già detto, i bombardamenti ad al Bab aprono una “terza via” nella lotta all’Isis che non è quella americana. Questo fa della Turchia un bersaglio separato, da colpire con più urgenza perché più attivo sul campo. In attesa di una nuova Amministrazione che almeno a parole vorrebbe ribaltare tutti i paradigmi della guerra all’Isis, l’America sta facendo poco per aiutare il suo alleato riottoso. Mentre sia il presidente russo Putin sia il primo ministro Medvedev hanno subito chiamato Erdogan per esprimere il loro sostegno alla lotta antiterrorismo del governo, ieri nessuna telefonata era ancora arrivata dalla Casa Bianca. Si accelera così un processo di disintegrazione che vede il più orientale avamposto della Nato trasformarsi in un tormentato paese mediorientale, dove terrorismo, autoritarismo e sospetto antiamericano sono la normalità.