CyberTrump
Lo scetticismo cospirazionista offre al presidente eletto uno scudo nella guerra sugli hacker russi
New York. Donald Trump ha promesso di rivelare molto presto “cose che gli altri non sanno” sulle incursioni cibernetiche per influenzare le elezioni che hanno portato a nuove sanzioni ed espulsioni di diplomatici russi da parte dell’Amministrazione uscente. I suoi consiglieri hanno strategicamente ridimensionato le aspettative. Sean Spicer, che sarà il portavoce della Casa Bianca dopo l’insediamento del 20 gennaio, ha detto che non “è necessariamente questione di rivelare qualcosa”, quanto di attendere le conclusioni di un’indagine approfondita che dirà in modo definitivo ciò che le diciassette agenzie dell’intelligence americana affermano in modo dubbio e provvisorio: “L’idea di parlare di future azioni basandosi su una conclusione che non è definitiva è incredibilmente irresponsabile”, ha detto Spicer alla anchorwoman della Cnn Alisyn Camerota che gli chiedeva conto dei provvedimenti che il governo di Trump potrebbe prendere.
Come spesso capita quando si parla del presidente che ha sfruttato il divario fra il significato letterale e quello figurato delle parole, Spicer ha preso soltanto la parte dubitativa della breve dichiarazione rilasciata ai cronisti sabato sulla via per la tenuta di Mar-a-Lago e ci ha costruito una prudente linea difensiva: le informazioni sui presunti hacker russi non sono definitive, non è il caso di approdare a conclusioni affrettate. Delle “cose che gli altri non sanno” sugli hacker russi e che Trump dovrebbe svelare a breve nessuna menzione. Sfruttando la sponda di Vladimir Putin, che sulla fiducia non ha ordinato un’espulsione di diplomatici uguale e contraria a quella decisa da Barack Obama, e attento a non impantanarsi prima ancora di cominciare in una guerra con il Congresso a larga maggioranza repubblicana (e a larghissima maggioranza antirussa), Trump sfrutta da par suo la zona grigia dell’ambiguità alternando annunci roboanti a prese di posizione più caute. Non si sanno ancora quali sono le “cose che gli altri non sanno” e che solo il presidente eletto sa, ma è chiaro che sul delicatissimo dossier delle interferenze elettorali Trump sta costruendo una strategia basata su due pilastri. Il primo consiste nell’infondere l’idea che le violazioni cibernetiche non sono chiaramente rintracciabili se non colte in flagrante.
“Una volta che hanno fatto l’attacco – ha detto Trump – se non li prendi durante l’atto non li prendi più”, quindi la comunità d’intelligence non può essere certa che sia “la Russia, la Cina o qualcuno sdraiato sul suo letto da qualche parte”. La nozione che un attacco di hacker non sia rintracciabile a posteriori è stata smentita da molti esperti. Michael Borohovski, capo della tecnologia dell’azienda Tinfoil Security, dice che “in realtà è molto più difficile individuare il colpevole di un attacco hacker mentre avviene che dopo il fatto”, e soltanto nei film gli allarmi rossi prendono a lampeggiare nel momento esatto in cui si apre una breccia nel sistema. Il secondo pilastro nella strategia di Trump consiste nello sfruttare l’ancestrale sfiducia nello stato e nelle sue interessate burocrazie che alberga nell’anima del popolo che lo ha votato. Le agenzie che hanno presentato accuse a suo giudizio “ridicole” sono le stesse che certificavano l’esistenza delle armi di distruzione di massa di Saddam Hussein. Agli occhi degli elettori di Trump, tutto quello che viene dai corridoi di Langley e dalle luccicanti sedi delle agenzie di intelligence che hanno dedicato le loro energie a spiare i cittadini americani è per definizione degno di sfiducia. Nella versione più sfacciata, questo scetticismo cospirazionista di fondo viene solleticato agitando “cose che gli altri non sanno” su come veramente sono andate le cose, nella sua traduzione più prudente i consiglieri di Trump parlano di conclusioni ancora provvisorie e incomplete, rimandano a nuove indagini che saranno infine credibili quando il nuovo governo si sarà insediato. Non occorre sapere ciò che il presidente eletto sa (o dice di sapere) sugli hacker che hanno penetrato i sistemi del Partito democratico per favorire l’elezione del candidato repubblicano per afferrare la sua strategia di delegittimazione degli apparati di sicurezza, condita dal solito spargimento di messaggi contraddittori per seminare confusione.