Che ve ne fate, adesso, della Lady della pace che ha scoperto la Realpolitik?
Aung San Suu Kyi oggi è accusata dalle anime belle del pol. corr. di tacere sulle morti dei dei rohingya. Ma le cose sono più complicate di quel che sembrano
Roma. Il problema non è Aung San Suu Kyi e il suo tentativo di (non) gestire un conflitto etnico che da cinquant’anni, periodicamente, si riaccende nella regione del Rakhine, in Myanmar. Il problema è l’occidente con i suoi premi Nobel, è la strategica costruzione di idoli della pace da venerare, da mettere in copertina, e di cui sbarazzarsi quando perfino i Santi mostrano il loro lato politico, ovvero umano. Aung San Suu Kyi è stata “The Lady” di Luc Besson e “Walk On” degli U2, un’icona pop coccolata per via dei trent’anni di limitazione della libertà impostale dal regime militare che criticava. Adesso che è Consigliere di stato a Naypyidaw da nemmeno un anno, il conflitto nel Rakhine sta aumentando – forse anche per via della possibile radicalizzazione di alcuni gruppi di rohingya – e lei viene accusata di tacere su un “genocidio”.
Perfino Amnesty International la scarica. Sono passati soltanto 5 anni dalla cerimonia in cui, tutti in piedi, la applaudivano mentre ritirava (in ritardo di 22 anni) il suo Nobel a Oslo e diceva: “La pace assoluta è un obiettivo irraggiungibile, ma dobbiamo continuare a perseguirlo”. Cosa sia successo, nel frattempo, è chiaro: la Signora ha dovuto sporcarsi le mani, perché è a capo di una democrazia giovane, povera, con conflitti etnici e religiosi che cinquant’anni di dittatura militare non hanno fatto che aggravare. Ha scoperto la Realpolitik. E’ lo stesso effetto che fa, otto anni dopo, l’icona del presidente Obama sul poster di “Hope”, e le foto sullo scranno norvegese, dopo aver realizzato che le guerre sono state sue, quanto quelle di Bush. Il problema dei rohingya, minoranza musulmana stanziata nel Rakhine, la regione birmana sul Golfo del Bengala, non è una novità per chi si occupi di questioni asiatiche. Non è una novità nemmeno per Aung San Suu Kyi, oggi è accusata dalle anime belle del pol. corr. di tacere su quelle morti. L’occidente piange sulla fotografia del bambino ucciso che ricorda l’immagine di Aylan Kurdi, in Turchia, ed è di nuovo soltanto una questione di immagini, di copertine che si sovrappongono. Ma è soltanto ideologia. Le cose sono molto più complicate di così.
I rohingya sono i migranti che nessuno vuole, un popolo senza patria che scappa da povertà e persecuzioni. Convivono difficilmente con la maggioranza buddista (il Myanmar è la patria del movimento 969 di Ashin Wirathu) e non sono riconosciuti come minoranza dal governo di Naypyidaw. Tra ottobre e novembre gruppi estremisti di rohingya hanno attaccato più volte obiettivi militari nel Rakhine, l’esercito ha risposto con una repressione violenta – simile a quella del 2012, che fece un numero ancora oggi imprecisato di morti. Nell’estate del 2015 in diecimila tentarono di raggiungere via mare le coste di Malesia, Thailandia, Indonesia come rifugiati, furono respinti pure da loro. Quelli che scappano via terra finiscono nei campi profughi del Bangladesh, uno dei paesi più poveri del mondo dove il rischio di radicalizzazione è particolarmente alto. In tutto questo Aung San Suu Kyi si è trasformata da icona in (real)politica, e l’occidente non può perdonarglielo.