Steinmeier, l'altro Schröder
Liberale in economia ma contrario all’austerità e al voto “irrazionale” degli europei. Quattro chiacchiere con il prossimo presidente della Repubblica tedesca
Con 931 voti su 1253 dell'assemblea federale tedesca, l'ex ministro degli Esteri Frank-Walter Steinmeier è stato eletto presidente della Germania. 61 anni, socialdemocratico, Steinmeier è il dodicesimo presidente della Repubblica federale e succede a Joachim Gauck. Rispettate le previsioni che lo davano eletto già alla prima votazione, a maggioranza assoluta, grazie all'appoggio della grande coalizione di governo, oltre che dei Verdi e del Partito liberale (Fdp). Ripubblichiamo di seguito l'intervista rilasciata da Steinmeier al Foglio lo scorso 5 gennaio.
Nel giugno del 1999 fece scalpore una copertina dell’Economist dedicata al “Malato dell’Europa”. Il malato era la Germania e il servizio all’interno tracciava un quadro impietoso quanto realistico della situazione. Oggi si è abituati a pensare alla Germania come a una icona di potenza, ma tra la fine degli anni Novanta e l’inizio dei Duemila il paese era precipitato nel buco nero di un declino apparentemente inarrestabile. Un paese stremato dalla riunificazione con i fratelli dell’est, nella quale aveva pompato l’equivalente di 1.500 miliardi di euro. Un paese passato in pochi anni dal quarto all’ottavo posto nella classifica europea del reddito pro capite. Un paese che da locomotiva del continente allora era costretto a inseguire affannosamente gli altri membri dell’Eurozona, Italia inclusa.
Tutti gli indicatori statistici, in quel periodo di fremente attesa per l’inizio della circolazione della moneta unica e di grandi speranze europeiste, puntavano nella direzione sbagliata proprio nel cuore di un rivoluzionario esperimento economico e monetario: aumentava il costo del lavoro per la crescita delle componenti non salariali, la pressione fiscale sulle imprese era arrivata al 60 per cento, la disoccupazione aveva superato il 10 per cento e saliva ancora. La coalizione rosso-verde guidata da Gerhard Schröder appariva prigioniera delle proprie contraddizioni e al Bundesfinanzministerium sedeva quell’Oskar Lafontaine, esponente della sinistra Spd, che prometteva di affrontare la sfida della globalizzazione con l’armamentario dell’Ottocento: più tasse sulle imprese, più vincoli sul lavoro. I giornali tedeschi parlavano di Blockierte Gesellschaft, una società bloccata. Bloccata dai veti incrociati, dalle resistenze sindacali, dalla difesa di interessi corporativi. Un mezzo disastro insomma. E’ un quadro che vi suona familiare? Vi ricorda per caso l’Italia degli ultimi vent’anni? Al netto dei costi della riunificazione tedesca e dell’alto debito pubblico made in Italy, le somiglianze in effetti non sono poche. Con la differenza che nel giro di qualche anno la Germania ha rovesciato la situazione e da grande malato è tornata ad essere la quarta economia mondiale e un modello per molti, mentre l’Italia lì stava e lì è rimasta. Nella palude. La chiave di volta di questo rovesciamento di prospettiva si chiama Agenda 2010, un pacchetto di riforme che nel biennio 2003-2005 ha inciso in profondità e in senso liberale nel sistema di Welfare, nelle relazioni sindacali, nell’assetto del mercato del lavoro, nelle politiche attive per l’occupazione, nella struttura fiscale. Non tutti sono convinti che l’ottima salute di cui gode l’economia tedesca oggi dipenda da quelle riforme, ma la relazione temporale tra la loro introduzione nel 2005 e (seppure con un ritardo) il miglioramento della situazione economica generale è assodata. La svolta fu decisa da Schröder all’inizio del suo secondo cancellierato (2002-2005).
L’Agenda 2010 fu approvata da un vasto arco di forze con l’eccezione della sinistra Spd sotto la minaccia di dimissioni da parte del cancelliere stesso e senza un’ora di sciopero, ma solo perché in Germania gli scioperi politici sono vietati. In realtà i sindacati portarono in piazza centinaia di migliaia di persone. Ma il governo resistette. L’Spd pagò un prezzo altissimo. Perse tutte le elezioni successive e alla fine l’esecutivo rosso-verde dovette passare il testimone ad Angela Merkel che a fine 2005 formò un governo di Grosse Koalition. Se la decisione di varare l’Agenda 2010 fu di Schröder, l’esecuzione del progetto porta le firme di Peter Hartz, all’epoca capo del personale della Volkswagen, sul piano dell’elaborazione delle proposte tecniche, e di Frank Walter Steinmeier, capo dello staff e consigliere principe del cancelliere, sul piano politico. Hartz oggi è in pensione. Steinmeier è al suo terzo incarico da ministro degli Esteri nei governi di larga coalizione che si sono succeduti dal 2005 sotto la guida di Angela Merkel e candidato senza rivali alla Presidenza della Repubblica grazie all’intesa sul suo nome raggiunta dai due maggiori partiti. Si insedierà nel castello di Bellevue, sede della Presidenza federale, alla scadenza del mandato dell’attuale inquilino del palazzo Joachim Gauck, il prossimo febbraio. Steinmeier è un amico dell’Italia. Passa le vacanze a Oberbozen, un paese al termine della funivia che collega Bolzano all’altopiano del Renon, da sempre luogo di villeggiature delle buone famiglie bolzanine e meta privilegiata di un selezionato turismo tedesco. Un panorama mozzafiato sulle grandi montagne dolomitiche, una vicinanza strategica all’aeroporto civile di Bolzano e all’aeroporto militare, una garanzia di tranquillità.
Ma Steinmeier non disdegna neppure qualche puntata a Capalbio, a proposito della quale dice “Ich weiss das” (lo so) e ride quando gli si ricorda che è un concentrato di intellettuali radical chic. La vicenda di successo dell’Agenda 2010 merita di essere ricordata fino nei dettagli per il suo valore emblematico di come anche un paese tendenzialmente conservatore, che all’epoca si sentiva preda della Reformstau, la irriformabilità, possa superare se stesso e uscire dall’impasse. E’ una vicenda che contiene molte lezioni per l’Italia, paese che da Mario Monti a Matteo Renzi non è ancora riuscito a trovare il bandolo della riformabilità. Steinmeier condivide questa analisi, ma insiste come sia “molto difficile fare accettare il cambiamento nelle nostre società”. Spiega che “Gerhard Schröder ha avuto un coraggio non comune. Ha capito che non c’era scelta, anche se tutti noi eravamo consapevoli che il costo politico sarebbe stato altissimo per il nostro Partito. E lo abbiamo pagato anche a causa delle divisioni interne alla Spd. Però dovevamo farlo nell’interesse del paese. Alla fine degli anni Novanta la Germania era veramente in declino. La disoccupazione aumentava di anno in anno e la crescita stagnava mentre il nostro partito aveva vinto le elezioni su un programma centrato sull’aumento dei posti di lavoro.
L’Agenda 2010 ha segnato indubbiamente un punto di svolta. La disoccupazione ha continuato a salire ancora per un po’ perché abbiamo conteggiato nelle statistiche delle persone in cerca di lavoro anche i lavoratori sussidiati, ma poi ha cominciato a scendere anno dopo anno. Ciononostante ancora oggi c’è qualcuno che contesta i risultati delle riforme dal punto di vista dell’equità. A questi critici rispondo che certo si può sempre fare meglio, ma le statistiche dicono che la disuguaglianza di reddito è aumentata da noi meno che in Francia o in Italia dove non sono ancora state fatte riforme altrettanto radicali”. Resta tuttavia un interrogativo per chi dall’Italia guarda alle vicende tedesche: se la conservatrice Germania, la patria dell’economia sociale di mercato, è riuscita a superare se stessa, perché Roma non ci riesce? Certo, i sistemi politico istituzionali sono diversi, così come il personale politico (che non è esente da scandali neppure in Germania ma le cui dimissioni nel caso sono in tempo reale) e a Berlino resta tuttora viva una funzione di intermediazione dei partiti tradizionali che a Roma è quasi scomparsa. Ma – chiediamo a Steinmeier – perché Matteo Renzi, al di la di quello che si può pensare di lui, è stato respinto con perdite al primo timido tentativo riformista? Non è che l’Italia è più intrinsecamente conservatrice della Germania? “E’ possibile, può darsi che il vostro paese sia più conservatore”, risponde Steinmeier che non intende pronunciare un giudizio più netto, ma il cui messaggio è chiaro. E coincide con il giudizio dato da tutta la stampa tedesca all’indomani del referendum: l’Italia non vuole cambiare. Punto. I media in Germania sono stati spesso ingenerosi con il prossimo presidente della Repubblica, sottoposto a un confronto continuo con la figura del suo mentore, Gerhard Schröder, di cui è stato il collaboratore più fidato, il prezioso organizzatore e consigliere politico, fin dai tempi in cui era governatore della Bassa Sassonia.
Quando nel 2009 Steinmeier correva per la cancelleria come leader della Spd contro Angela Merkel, la stampa gli cucì addosso l’immagine di uomo arido, abituato ad agire dietro le quinte, un tecnocrate della politica, e coniò definizioni come Graue Eminenz (Eminenza Grigia) e “Schroedermeier”. Lui liquida la questione così: “La stampa tedesca ama gli stereotipi”. E non ha torto. In realtà da Schroeder lo dividono soprattutto i tratti dello stile non la sostanza. Tanto Schroeder era un leader politico flamboyant, amante dei riflettori e narcisista, quanto Steinmeier ha uno stile asciutto, un totale controllo delle proprie emozioni e allo stesso tempo un atteggiamento amichevole e aperto al dialogo. A Oberbozen lo puoi trovare all’edicola a comprare il giornale accompagnato da una sola e discreta guardia del corpo, o a fare la spesa o al caffè. Uno dei suoi libri preferiti è “La scoperta della lentezza” di Sten Nadolny, che racconta la vita romanzata dell’esploratore artico John Franklin che fece della langsamkeit (la lentezza) un punto di forza. Ma la sostanza decisionista e la tendenza a prendere posizioni nette quando è necessario non è diversa da quella di Schröder.
Steinmeier è un liberale in politica economica (verrebbe da dire in politica microeconomica) che non sposa tuttavia l’austero radicalismo di Wolfgang Schauble o Angela Merkel. In politica estera le sue posizioni sono quelle tradizionali del Spd e si ispirano a una Ostpolitik riveduta e corretta rispetto ai tempi di Willy Brandt. Nel 2010 in un articolo sul Financial Times scritto insieme a Peer Steinbruck propose l’haircut, una spuntatina, al debito di Portogallo, Grecia e Irlanda e una limitata introduzione di eurobond controbilanciata da un allineamento delle politiche fiscali e da maggiori controlli sulle politiche stesse. Una forma combinata di condivisione e riduzione dei rischi ante litteram. Queste misure “avrebbero segnalato ai mercati che l’Europa è forte, unita e disposta ad agire collettivamente di fronte alle emergenze”. Oggi si dice “molto preoccupato per la situazione dell’Unione europea. L’Europa non trova il coraggio politico per superare le sue divisioni. I migranti per esempio sono un problema dell’Europa e non dei singoli paesi. L’Italia nella posizione in cui si trova andrebbe aiutata. Tutto questo crea il terreno favorevole alla crescita dei movimenti euroscettici e populisti. La gente ha paura e non vota razionalmente. Occorre rispondere concretamente come Europa ai bisogni dei cittadini, se vogliamo fermare i populismi”. Come ministro degli Esteri Steinmeier ha assunto spesso posizioni attente alle ragioni di Mosca e distanti da quelle di Washington, a prescindere dal colore dell’Amministrazione Usa.
Nel 2003 organizzò la coalizione russo-franco-tedesca contro la guerra all’Iraq, anche se questo non gli impedì di fornire al comandante delle truppe americane, Tommy Franks, un supporto di intelligence (di cui era coordinatore) tra Baghdad e il Qatar dove aveva sede il quartier generale americano. Tuttora considera “un errore della Commissione Barroso” avere promosso l’accordo di libero scambio tra la Ue e la Ucraina, suscitando l’irritazione di Mosca, così come sono note le sue critiche alle manovre militari Nato nei paesi baltici della scorsa estate. “La Russia – dice – è un paese con gravi difficoltà economiche ma resta una potenza sul piano politico. Non si risponde alla politica assertiva di Putin isolando il Paese, ma tenendo aperto il dialogo. Invece l’Europa rinuncia spesso a fare una politica autonoma e attenta ai propri interessi per seguire gli Stati Uniti, come è accaduto ad esempio sulle sanzioni economiche”. Nel 2007 al culmine delle polemiche sui casi Polytovskaya e Litvinenko Steinmeier stigmatizzò “un certo isterismo dei media” sul tema e invitò a una “maggiore ragionevolezza” attirandosi le ire dell’opposizione interna a Putin. Oggi, guardando al futuro, Steinmeier si dice convinto che l’amministrazione di Donald Trump, definito un “predicatore d’odio” prima delle elezioni, “cambierà la politica estera degli Stati Uniti, ma non la politica di difesa e il ruolo della Nato che resta uno strumento troppo importante per Washington”.
Nel teatro mediorientale il ruolo dell’Europa era e resterà “irrilevante. I russi dovranno mettersi d’accordo con gli americani. L’Europa potrà giocare la sua partita nella ricostruzione”. Dopo quasi un ventennio ai vertici della politica e del governo oggi Steinmeier non deve più fare i conti con l’ombra d Schroeder. L’allievo ha superato il maestro e il prossimo presidente della Repubblica federale contende ad Angela Merkel il primato della popolarità. Steinmeier è forse il politico più amato della Germania: lo era per il suo ruolo di rappresentante del paese all’estero, lo è diventato ancora di più quando nel 2010 ha lasciato per un periodo la scena per donare un rene alla moglie ammalata. Un gesto che ha impressionato i tedeschi e che ha consolidato la sua immagine di uomo forte e generoso. Con Angela Merkel condivide un certo stile di sobrietà ed equilibrio che nella politica tedesca sembra diventato un must. Resta da chiedersi se il suo ruolo nella costruzione e nella realizzazione dell’Agenda 2010 abbia contribuito alla sua candidatura alla presidenza. Lui nega. Resta il fatto che nell’Europa dell’immobilismo perenne e della Reformstau al vertice della Repubblica federale siederà un riformista e non un conservatore.
L'editoriale dell'elefantino