Rajoy ormai governa con i socialisti, partner a loro insaputa
Il primo ministro del Partito popolare Mariano Rajoy, ripreso in prima pagina dal País, ha fatto sapere che il governo non approverà leggi che non siano già state concordate con il Psoe
Roma. Non ditelo a Javier Fernández, presidente del comitato di gestione che comanda il Partito socialista spagnolo, non ditelo nemmeno a Susana Díaz, la governatrice andalusa che comanda per davvero dentro al partito, non ditelo nemmeno a Pedro Sánchez, ex segretario disarcionato che su questo tema si è giocato carriera politica, credibilità e anche il nero immacolato dei suoi capelli: la Spagna ormai è governata da una grande coalizione, e i socialisti ne fanno parte. Loro malgrado, si potrebbe dire, o a loro insaputa, per usare un lemma celebre, ma a certificarlo è stato due giorni fa il primo ministro del Partito popolare Mariano Rajoy, ripreso in prima pagina dal País: il governo non approverà leggi che non siano già state concordate con il Psoe. Questo significa attribuire unilateralmente ai socialisti le responsabilità di un partner di governo, e poco importa se i socialisti non lo desiderano: non sono in condizione di fare altrimenti. La situazione della politica spagnola è nota: nonostante un’alleanza (anch’essa non ufficiale e piena di ritrosie) con i centristi di Ciudadanos, Rajoy non ha la maggioranza dei voti alle Cortes, e per far passare qualsiasi provvedimento ha bisogno del sostegno di qualche deputato dell’opposizione socialista. All’indomani del voto di fiducia di ottobre, i socialisti avevano promesso che avrebbero fatto sudare al premier ogni singolo voto, che lo avrebbero fiaccato a suon di concessioni, che avrebbero fatto valere il loro peso numerico senza sconti. Il magazine spagnolo parlò di una “operazione inferno” ordita dai socialisti.
Rajoy però ha sorpreso tutti. Il politico arcigno del primo mandato, quando aveva la maggioranza assoluta, che seguiva alla lettera le prescrizioni della troika, macinando sul suo cammino opposizione, dipendenti pubblici e indignados, il premier con cui non si poteva discutere si è trasformato in un negoziatore attento, in un partner relativamente malleabile e in un leader per certi versi creativo – quando la creatività sembrava l’ultima qualità in assoluto attribuibile al tecnocratico premier. A dicembre Rajoy è riuscito a stipulare un accordo con Fernández per far passare agilmente e grazie ai voti dei socialisti il pacchetto di leggi in assoluto più urgente per il paese, la legge di stabilità necessaria per evitare sanzioni dall’Unione europea per eccesso di deficit. E’ in quel momento che il Rajoy-arcigno si è trasformato nel Rajoy-negoziatore: il premier è riuscito a far digerire ai socialisti nuove misure di austerity concedendo alcuni aggiustamenti a loro cari, come una migliore redistribuzione dei fondi pubblici alle regioni e soprattutto un aumento dell’otto per cento del salario minimo. Questo ha consentito al Psoe di salvare la faccia davanti ai suoi elettori e a Rajoy di ottenere la maggioranza necessaria. L’espediente è stato così efficace che il primo ministro ha deciso di trasformarlo in metodo.
Secondo il País, ha dato mandato a tutti i suoi ministri di cercare accordi con la controparte socialista per qualsiasi misura, e le priorità per ora sono due: la riforma della Giustizia e la legge Finanziaria. Quest’ultima è la più delicata, perché richiede una serie di letture aggiuntive, ma l’accordo sulla legge di stabilità ha consentito a Rajoy di prorogare il Budget del 2016 e di prendere tempo. Il nuovo metodo Rajoy prevede di accettare le episodiche sconfitte parlamentari (il governo è andato sotto molte volte negli ultimi mesi, ma mai su provvedimenti essenziali), di scrollarsele di dosso e andare avanti concentrandosi sugli obiettivi raggiungibili. E’ un andamento a tentoni, a volte incerto, ma l’unico perseguibile per ora. Soprattutto, Rajoy ha deciso di trattare i socialisti come inconsapevoli partner di governo. Una grande coalizione era quello che il premier avrebbe voluto fin da dopo le elezioni di dicembre 2015, e che adesso ottiene nei fatti, grazie alla debolezza degli storici avversari. Se il governo cadesse e si tornasse alle urne, l’unico a rafforzarsi sarebbe ancora il premier.