La sinistra senza guantoni
Nessuno dei quattro candidati alle primarie della sinistra in Francia sembra in grado di competere con il rassicurante Fillon o la rivoltosa Le Pen. L’unica certezza è che, comunque vada, il subvincitore sarà Putin
Sono in quattro. Tutti maschietti. I socialisti che si affrontano stasera in tv per le primarie si chiamano Manuel Valls, bello, fino a ieri premier di François Hollande; Arnaud Montebourg, molto bello e oratore superbo, ex ministro dell’Economia che ruppe con governo e partito nel 2014 “da sinistra” e fu sostituito dalla giovane promessa Emmanuel Macron (giovanissimo banchiere di sinistra), oggi candidato indipendente e sposo dell’ex ministro della Cultura Aurélie Filippetti; Vincent Peillon, filosofo di formazione; Benoit Hamon, sostenitore del revenu de base, ossia il salario universale di stato. Valls è in testa, Montebourg potrebbe essere la sorpresa. Poi gli outsider. Chissà. Valls gioca la carta del parlare chiaro sulla sicurezza e l’ideologia della laicità, ma il peso della responsabilità condivisa con il presidente più impopolare della storia lo sovrasta. Si dice seguace del radicale Clemenceau, detto “la tigre”, vincitore della Prima Guerra mondiale, un duro tra i duri. Montebourg è per il made in France, ha chiesto con un libro di votare la demondializzazione, ha vissuto questi anni nel settore privato, startup, energia pulita e cazzi vari, si presenta come alternativo al socialismo liberaleggiante riformista di Valls e al liberalismo di destra incarnato da François Fillon, vincitore su Sarkozy e Juppé.
I quattro si affiancano, si inseguono, si contrastano e si detestano da un quarto di secolo. Sono quel che resta di un partito dominante, il Partito socialista, oggi in profonda crisi. Il nominato, chiunque sia, rischia di non arrivare al ballottaggio presunto con Fillon. Incombe la popolarità nera di Marine Le Pen, che si è rimpannucciata a dovere e fa l’anti euro, anti immigrati eccetera. Incombe la popolarità di Macron, che non ha il fuoco nella pancia del leader nazionale, ma è molto intelligente, vispo, ha un programma persuasivo, sebbene sia un banchiere di formazione Rothschild, che non è il massimo dati i tempi. Sono più o meno tutti percepiti come nomenclatura di potere, chi più chi meno. La gauche nel suo momento opaco, molto opaco. Vedremo. Hollande lascia macerie, pettegolezzi, diminuzione netta dell’autorità presidenziale. Il suo ex consigliere politico, Aquilino Morelle, ha appena pubblicato un testo, “L’abdication”, in cui gli rimprovera di aver rassegnato le dimissioni subito dopo l’elezione, non quando ha rinunciato a ripresentarsi, perché non era interessato all’esercizio del potere e al mutamento della Francia, solo a essere il presidente.
Aquilino, velenoso tra i velenosi che affollano la scena francese, fu cacciato quando si scoprì che invitava all’Eliseo nel suo ufficio un lustrascarpe a spese dello stato. Era ed è della fazione di Montebourg, sinistra con le scarpe lucide. La pugnalata era attesa: nella politica esagonale si è sempre in attesa di cattive notizie. A destra e a sinistra. Mitterrand, primo presidente socialista della V Repubblica, era un re repubblicano. Fascino, mistero, maestà. E aveva una politica, anzi mille politiche diverse e tutte a loro modo efficaci. Il mandato era una cosa seria, durava sette anni. L’Europa era in tumulto. Caduta del Muro di Berlino. Nuova Germania unificata. Nuova moneta eccetera. Hollande è stato subito giudicato un impiegato, un funzionario alto in grado, messo lì dal partito perché Strauss-Kahn si comportava con violenza compulsiva in fatto di donne e sesso. Cherchez la femme. Perfino l’avvenenza della sua amante cui portava i croissant in moto e casco regolamentare, Julie Gayet, è messa in discussione. Della lealtà della sua concubina sfrattata, Valérie Trierweiler, non si discute: ha fatto di tutto per sputtanarlo, con successo. Di Ségolène Royal, madre dei suoi figli, bè, affetta predilezione per il non socialista Macron, ecco. I risultati economici e sociali del suo quinquennato sono considerati nulli. I rating danno segno di qualche ripresa da quando se ne è andato piagnucolando, ma restano a una cifra. Anche sulla stagione abietta del jihad in terra di Francia, gaffe colossali come quella, rientrata, della proposta di togliere la nazionalità francese ai terroristi incalliti. Disastro.
Quello dei quattro che prevarrà può battersi, è ovvio, ma nella più totale insicurezza. I francesi vogliono essere rassicurati (Fillon) o rappresentati come un popolo in rivolta contro chi vuole rimpiazzare la loro identità nazionale e popolare (Le Pen), l’identità infelice di cui parla Alain Finkielkraut. I quattro si dicono repubblicani, l’identità è la République, ma la Francia, avverte Finkie, è anche storia e continuità, non tollera che esistano territori perduti per la lingua, il costume, la libertà di culto e di parola. Nemmeno nelle banlieue dove l’islamizzazione, forte della strategia di vittimizzazione dei Fratelli musulmani, in complicità con gli utili idioti della gauche, procede secondo l’osservatrice qualificata Elisabeth Lévy, a grandi passi. Non c’è un Trump, malgrado la Le Pen, la villania non è potabile né a Parigi né nella Francia d’en bas, rurale e provinciale. Ma se la gauche apparirà come un guanto ideologico, in epoca di guantoni, è destinata a perdere il confronto. E Macron, speranza delle persone gentili e raziocinanti, che apprezzano anche Fillon per la sua riservatezza, il suo stile, la sua radicalità, con essa. Putin sarà comunque il subvincitore, quale che sia l’esito.