Brexit test
A Londra c’è una grande frenesia per preparare l’incontro con Trump. Oggi la May a Davos
Roma. Quella che per Theresa May è la “Global Britain”, forte e liberale, sui giornali europei si fa piccola piccola, diventa “Little Britain”, isolata e debole. I punti di vista, si sa, non potrebbero essere più diversi: c’è il governo di Londra che non vuole scendere a compromessi e dare un seguito letterale al referendum sulla Brexit, e c’è il resto dell’Europa che trema e s’indigna all’idea che davvero il Regno Unito voglia fare a meno di lei. I rischi sono alti per tutti: come ha riassunto Foreign Affairs, con la Brexit l’Unione europea perde la sua potenza militare più grande, uno dei suoi due stati in possesso di armi nucleari, uno dei suoi due stati con potere di veto al Consiglio di sicurezza, la sua seconda economia più grande (che vale il 18 per cento del pil europeo, e il 13 per cento della popolazione complessiva europea), e il suo unico centro finanziario globale.
Il Regno Unito, invece, perde un mercato che accoglie il 40 per cento delle sue esportazioni, perde il diritto automatico per i propri cittadini di lavorare, studiare, vivere negli altri 27 paesi dell’Unione e perde anche un beneficio enorme nei negoziati commerciali con il resto del mondo: il potere contrattuale di un continente. L’economista tedesco Friedrich List, uomo dell’Ottocento con una grande visione di sistema, considerato uno degli ispiratori della Comunità europea, diceva che soltanto le economie forti e grandi avevano interesse nel libero scambio, perché avevano un vantaggio competitivo rispetto alle altre – allora l’Inghilterra era la più grande potenza del mondo. Oggi non è più così, e la volontà di Theresa May di siglare accordi commerciali con tutti, a partire dall’Europa stessa ma senza troppe esclusive, potrebbe rimanere frustrata: certo farebbe fatica a dettare le proprie regole con economie enormi come l’America o la Cina.
A questo proposito circola un aneddoto che riguarda il negoziato commerciale tra Cina e Svizzera, tre anni di trattative, tutti i prodotti cinesi che possono entrare nella repubblica elvetica senza una reciprocità perfetta. I negoziatori svizzeri chiesero un’eccezione per gli orologi di alta qualità, mercato d’eccellenza per gli svizzeri in cui i cinesi non operano affatto, ma si sentirono rispondere: “Voi avrete anche gli orologi, ma noi abbiamo il tempo”. Il Regno Unito non è la Svizzera ma il baldanzoso rilancio globale sognato dalla May potrebbe risultare ridimensionato, soprattutto dalla poca ispirazione aperturista e liberale degli altri interlocutori. E’ per questo che la Brexit, nata come un’alternativa remota dettata da sfide interne a un partito inglese (quello conservatore: questo fu l’errore fatale di David Cameron), diventata poi “volere popolare” e materia di discussione infraeuropea, ora si è trasformata in un test globale. Non si tratta soltanto di definire i dettagli di una separazione – mestiere invero complicato che consumerà tempo e stipendi di decine di persone per almeno due anni – ma anche di verificare come e quanto resistono le relazioni commerciali, politiche e valoriali che tengono insieme principalmente l’occidente. In gioco c’è l’ordine liberale, che in questi ultimi mesi è finito su tutte le copertine del mondo pieno di cerotti e operai della manutenzione, ma che non è una categoria astratta: funzionerà ancora l’occidente con l’Ue senza il Regno Unito e l’America di Donald Trump?
Lo slancio del governo di Londra è liberale e globalizzante: le parole della May su apertura e libertà sono state applaudite anche da chi vede con terrore la Brexit, perché non si sentono più molto spesso e perché sintetizzano un’identità occidentale che s’è consolidata nel Dopoguerra. La May dice: l’Europa è troppo protezionista per noi, ci buttiamo nel mondo perché così l’interesse britannico sarà salvaguardato. Ma poi aggiunge: abbiamo già promesse da parte di molti interlocutori su accordi commerciali bilaterali, e cita gongolante Donald Trump che ha ribaltato il paradigma obamiano – se uscite dall’Ue, “finirete in fondo alla fila”, aveva detto il presidente uscente in visita a Londra nella primavera scorsa – e promette: siete davanti nella fila. Ma Trump è lo stesso leader politico che fa della disintegrazione dell’ordine costituito la sua bandiera: l’Europa può spezzarsi tanto non serve a niente (e Marine Le Pen in Francia non fa che assimilare le presidenziali a un referendum sull’Ue, contando sulle stesse fortune della Brexit), la Nato non ne parliamo nemmeno, soprattutto il commercio diventerà un affare regolato meglio, con dei dazi, è questo il senso pratico di “America first”.
Siamo nell’ordine della retorica trumpiana, che nessuno sa come trattare e quanto prendere sul serio, ma dovendo fare una sintesi si potrebbe dire che come la May ha sbattuto la porta in faccia all’Ue, così il resto del mondo – vedi l’America, che è il mondo più vicino oltre che consanguineo – potrebbe sbatterla in faccia a lei. Il paradosso di questo test globale è così completo: la Brexit nasce dalla volontà di contenere una delle libertà-pilastro dell’occidente – la circolazione delle persone – e si trasforma nel più grande esperimento liberale di questa nuova fase di nuove, imprevedibili relazioni, come ribadirà oggi il premier inglese nel suo discorso a Davos. La sintesi perfetta di questa contraddizione è nel lavoro meticoloso che i politici inglesi stanno facendo per organizzare il primo incontro tra Trump e la May, i giornali inglesi sono pieni già da ora di resoconti su procedure, scartoffie e mondanità. E pensare che buona parte degli interlocutori che oggi aspetta trepidante il vertice soltanto un anno fa definiva Trump “buffone”, “demagogo” e soprattutto “wazzock”, un idiota.