Presidente Trump
Il giuramento non ha smorzato il leader che promette di restituire l’America al popolo
New York. Il giuramento sulla Bibbia, il momento più solenne della liturgia del potere americano, è passato sulle labbra di Donald Trump senza lasciare traccia. Il 45esimo presidente degli Stati Uniti è identico al furente bastonatore della campagna elettorale. Il discorso con cui venerdì ha inaugurato la presidenza non si è discostato dalla retorica esibita in centinaia di comizi tutti uguali. Non c’è stata la svolta presidenziale, non ci sono stati i sognanti inni all’armonia nazionale previsti dal protocollo. Al loro posto è comparsa una leggerissima variazione sullo stump speech trumpiano classico, con abbondanti dosi di “America first” e risentimento diffuso verso l’establishment fanfarone, il tutto pronunciato con la rabbiosa enfasi di un discorso del giorno prima delle elezioni.
Si è mosso all’interno della mappa politica che il suo elettorato conosce bene, evitando le virate e le correzioni e, anzi, spingendo sull’acceleratore quando tanti scommettevano che avrebbe morso il freno, genuflettendosi al cerimoniale. Passati i doverosi saluti, Trump ha immediatamente spiegato che questo non è un insediamento come gli altri, ma è un salto qualitativo nella storia americana: “La cerimonia di oggi ha un significato molto speciale. Perché oggi non stiamo soltanto trasferendo il potere da un’Amministrazione all’altra, da un partito all’altro; stiamo trasferendo il potere da Washington DC a voi, il popolo americano”. Il presidente ha subito castigato l’establishment che “per troppo tempo ha raccolto i benefici dello stato mentre i cittadini ne sostenevano i costi”, un passaggio che carezza anche la sensibilità della sinistra antisistema di Sanders, e si è poi gettato a capofitto nella nota sequenza di topos trumpiani: i “forgotten men”, la vittoria, i politici “all talk no action”, “buy American, hire American”, la resurrezione dell’industria in ginocchio.
Sono le risposte trumpiane a “this American carnage”, la truculenta iperbole con cui ha definito la situazione di un paese consumato dall’insipienza di una classe dirigente incapace. Lo slogan isolazionista “America first”, eletto a “nuova visione”, ha dominato una giornata che “sarà ricordata come quella in cui il popolo è diventato di nuovo sovrano di questa nazione”. Le contraddizioni, al solito, non sono mancate. Non è chiaro come il nuovo verbo isolazionista possa convivere con la promessa di “sradicare dalla faccia della terra il terrorismo islamico” o di “liberare il mondo dalle miserie delle malattie”, promesse che rispondono a un codice e a una missione universalista e wilsoniana.
La celebrazione dell’unità dell’America multietnica si è ridotta al ricordo del detto per cui il sangue dei patrioti è sempre rosso, a prescindere dal colore della pelle, mentre il resto dell’invocazione si è mosso lungo la dicotomia fra popolo ed élite. Il testo porta in ogni sua parte le impronte digitali di Steve Bannon e Stephen Miller, i modellatori del messaggio più populista e urlante, mentre i consiglieri a sangue freddo sono stati evidentemente esclusi dal processo di elaborazione. Ma Trump ci ha abituati a tenere sempre un doppio o triplo registro. Dicevano che nei giorni scorsi aveva studiato innanzitutto il discorso inaugurale di John F. Kennedy, ma quello che è venuto fuori è un distillato ultrapopulista senza sconti né sorrisi che rende piuttosto omaggio ai toni eccessivi di un Andrew Jackson. In alcuni punti, tuttavia, ricalca certi temi offerti da Ronald Reagan nel primo discorso di insediamento, nel 1981. Il grande presidente repubblicano è passato alla storia come un’icona di ottimismo e atletica propensione al futuro, ma nel suo distillato ideologico c’era anche una componente rabbiosa verso il potere centrale, quello stato che è “il problema, non la soluzione”. Quel discorso ha una lunga pars destruens che non è del tutto assurdo accostare al testo pronunciato venerdì da Obama. Il reaganismo, del resto, era una forma di “fusionismo” ideologico fra diverse correnti della destra: il populismo nazionalista della “old right”, il neoconservatorismo internazionalista, le pulsioni libertarie. Trump ha tenuto soltanto la prima di queste tradizioni, esagerandola fino al paradosso.