Autobomba e volantini
Tira una bruttissima aria in Libia per l'Italia e non è soltanto l'Isis
Volano le accuse di neo-colonialismo e fascismo, tirate fuori ad arte per colpire l’appoggio al governo debole di Tripoli. L’odio arriva dall’est filorusso
Roma. In Libia monta un clima anti italiano intenso e pericoloso che prende di mira la posizione del nostro governo al fianco di Fayez al Serraj, “quasi primo ministro” di Tripoli, detestato da Khalifa Haftar, l’uomo forte di Bengasi, inviso agli stessi clan della capitale – che hanno già tentato due golpe in tre mesi – e odiato dallo Stato islamico, che lo vede come principale veicolo dell’America – e dell’Italia – in Libia.
Partiamo dall’Isis. La notizia del raid aereo americano che nella notte tra mercoledì 18 e giovedì 19 ha distrutto due campi dello Stato islamico nel deserto a sud di Sirte, in Libia, è stata data per prima dalla rete americana Cnn e contiene di passaggio altre due notizie che sono interessanti per l’Italia. Una è che all’operazione hanno partecipato anche droni armati americani partiti da una base in Italia – e si tratta di un ulteriore passo del paese verso l’impegno contro lo Stato islamico, fatto con molta discrezione, ne parla Gianandrea Gaiani qui. L’altra notizia è che secondo il Pentagono lo Stato islamico in Libia stava preparando attacchi di rappresaglia “dentro l’Unione europea”. L’avvertimento è vago, ma è facile capire che l’Italia non è esclusa, anzi: il paese è il bersaglio di minacce continue da parte della divisione libica del gruppo terroristico nei video e nei canali di propaganda su Telegram, perché ha appoggiato i battaglioni della città libica di Misurata che tra maggio e dicembre 2016 hanno espugnato la capitale di fatto dello Stato islamico, Sirte. L’Italia ha un contingente di circa 300 militari a Misurata, impegnati in una missione sanitaria per curare i feriti della battaglia ormai finita, ma si tratta pur sempre di una presenza militare straniera.
Tra i morti del raid americano c’erano – sempre secondo il Pentagono – anche combattenti del gruppo terroristico che erano riusciti a sottrarsi all’assedio di Sirte e che avevano fondato alcuni campi a sud della città per riorganizzarsi. Che stessero progettando attacchi di rappresaglia è molto probabile. L’Europa non sembra così distante vista dal deserto libico e molti leader vantano una certa familiarità. Secondo il giornale tunisino al Chorouk, il capo dello Stato islamico in Libia, Jalal al Din al Tunisi, è un tunisino di nome Muhammad bin Salim Layouni che ha passato la maggior parte della sua vita in Francia, tanto da ottenere la cittadinanza francese, prima di lasciare Parigi per la Tunisia nel 2011 per poi andare a combattere in Siria nel 2013. Per fare altri esempi, due capi tunisini in Libia, Noureddine Chouchane (ucciso a marzo 2016) e Moez Fezzani, hanno vissuto per anni in Italia. I collegamenti tra le due sponde del Mediterraneo ci sono.
Ma il clima anti italiano non appartiene al solo Stato islamico, come si vede dalla propaganda anti italiana che gira non soltanto sui canali del gruppo terroristico ma anche su quelli della Cirenaica, vale a dire l’est del paese controllato dal generale Khalifa Haftar – alleato dichiarato della Russia. A volte le minacce sono identiche, per esempio sfruttano le stese immagini recentissime di soldati italiani in Libia e sono dirette contro la presenza militare a Misurata, a volte prendono la forma di una rivalsa contro l’occupazione italiana “colonialista e fascista” di un secolo fa. C’è tutto un aumento di incidenti, di proteste, di riferimenti insistenti al passato coloniale e di denunce di “neo colonialismo”. Una protesta convocata per venerdì 13, due settimane fa, chiedeva l’espulsione dal paese dell’Eni, il gigante italiano dell’energia, con un volantino che recita “No al terrorismo, no alla Fratellanza musulmana” e si scaglia anche contro “l’Italia fascista e colonialista”. Quanto sono lontani oggi i tempi in cui l’ad di Eni, Paolo Scaroni, scortato dagli incursori di marina, atterrava a Bengasi per negoziare con i rivoltosi ed era ricevuto molto bene. Era il 3 aprile 2011, in piena rivoluzione antigheddafiana, Eni fu la prima a ricomporre le relazioni.
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