Brexit drama
I giudici sono contro May, che segna comunque due punti. E il “golpe democratico” ha due nuovi appigli
Milano. La Corte suprema inglese ha stabilito ieri che sulla Brexit il Parlamento dovrà votare l’attivazione dell’articolo 50 del Trattato di Lisbona, che dà inizio alla procedura di uscita del Regno Unito dall’Unione europea. Il governo di Theresa May voleva avere mandato esclusivo sulla gestione del divorzio – e della volontà popolare – ma otto giudici supremi su undici hanno deciso che su questioni che “influiscono sui diritti dei cittadini” il Parlamento deve avere diritto di parola. Il governo sapeva già che avrebbe perso il ricorso e infatti un testo per la votazione è già pronto: è snello, ma è possibile introdurre emendamenti. Al di là della sconfitta presso la Corte, la May ha segnato due punti a proprio favore: il primo è che con il voto parlamentare – ammesso che sarà a favore dell’articolo 50 – il suo mandato sarà più condiviso e quindi più legittimo; il secondo è che la sentenza della Corte stabilisce che non serve l’assenso dei parlamenti di Scozia, Irlanda del nord e Galles all’articolo 50, e questo per la May è un grande sollievo, dal momento che la resistenza alla Brexit in quei parlamenti è fortissima e un voto lì avrebbe certamente alterato il calendario previsto dal governo e discusso anche con Bruxelles, che vuole l’attivazione dell’articolo 50 entro la fine di marzo.
Nicola Sturgeon, “premier” di Scozia, ha detto che non le importa nulla della decisione della Corte, un voto in Parlamento lei lo organizzerà comunque, ha già 50 emendamenti pronti per la legge che si discuterà a Londra ed è decisa a minacciare anche un altro referendum sull’indipendenza scozzese se necessario: non accadrà mai, sostiene, che la Scozia esca dal mercato unico dell’Ue. Ma al momento questa opposizione è disinnescata dalla sentenza, e anche se politicamente la tenuta interna del Regno sarà un problema per il governo, ora la May può occuparsi di far rispettare i tempi della procedura, che è la sua preoccupazione più grande. Molti commentatori hanno celebrato la sentenza di ieri come una grande dimostrazione di democrazia: il voto del popolo al vaglio del voto dei rappresentanti del popolo, con l’unica contraddizione che la Camera dei Lord non rappresenta nulla, visto che i suoi membri non sono eletti, ma nominati. I sostenitori della Brexit, soprattutto gli indipendentisti, hanno detto che si tratta soltanto di una perdita di tempo, che il voto popolare non può essere ribaltato né da parrucconi né dal potere centrale. Ma ci sono anche molti altri sostenitori della Brexit che condividono la sentenza e il ruolo del Parlamento: non si può fare di tutto per riottenere sovranità e poi non volere l’esercizio di tale sovranità nelle proprie istituzioni.
Per di più il cosiddetto golpe democratico, democrazia indiretta che batte democrazia diretta, con tutta probabilità non ci sarà: non c’è quasi nessuno che vuole utilizzare il voto parlamentare per ribaltare l’esito referendario. Jeremy Corbyn, leader del Labour, ha detto che il partito non si opporrà nel voto sull’articolo 50, ma ancora non è chiaro se imporrà il voto ai suoi parlamentari – già in rivolta – oppure no: in ogni caso la sua leadership rischia di subire un altro colpo. Il golpe democratico pare oggi non praticabile, ma ci potrebbero essere altre occasioni. Due, in particolare. Una riguarda l’opposizione che molti parlamentari – anche conservatori – intendono fare sull’uscita del Regno Unito dal mercato unico e sulla prioritizzazione dell’immigrazione. Pare destinata al fallimento, ma se ne discuterà. La seconda invece è più allettante per gli aspiranti golpisti: il Labour potrebbe riuscire a introdurre un emendamento che chiarisca che cosa succede se, nel 2018, i parlamentari voteranno contro l’accordo finale del governo May con l’Ue. In quel caso, il Regno Unito uscirà automaticamente dall’Ue? Oppure si ridiscuterà tutto, e la Brexit potrà essere infine ribaltata?