Il fiuto della Cina
L’ostilità di Trump spinge Pechino a candidarsi come leader mondiale. Dossier per dossier ecco come si muove Xi Jinping, dove vuole arrivare e tutte le sue contraddizioni
Siamo in un mondo sottosopra: sembra che i leader di Stati Uniti e Cina si siano scambiati di ruolo, almeno a livello di retorica”. Andrew Browne, columnist del Wall Street Journal da Shanghai, ha espresso in maniera perfetta lo spaesamento che in questi ultimi mesi ha colpito gli osservatori di politica estera, che vedono la divisione tradizionale tra potenze liberali e potenze autoritarie confondersi e ridursi. Dall’inizio dell’èra Trump c’è stato uno “switch”, un’inversione di posti tra Washington e Pechino, e se presto Washington non correrà ai ripari il mondo potrebbe plasmarsi in una maniera contraria a quella che ha consentito benessere e stabilità al mondo sin dalla fine della Seconda guerra mondiale. Il ritiro annunciato dell’America trumpiana dallo scenario mondiale sta lasciando dei vuoti che la Cina è pronta a riempire: dal libero commercio alla globalizzazione ai dossier più delicati in medio oriente alle questioni ambientali, la Cina muove per cercare di prendersi la leadership che sarebbe degli Stati Uniti.
Il vero “Davos man”. Chi avrebbe pensato, anche solo un anno fa, che il presidente degli Stati Uniti avrebbe capeggiato un’ondata di ritorno al protezionismo economico e ai dazi frontalieri, mentre Xi Jinping, il presidente cinese additato da tutti come novello Mao, sarebbe diventato il campione dell’élite globalista mondiale e ultimo protettore di una visione del mondo incentrata su globalizzazione e libero commercio? E’ quello che è successo la settimana scorsa a Davos, dove Xi è stato l’ospite d’onore, tra l’incredulità degli osservatori. Trump ha elogiato il protezionismo, Xi lo ha condannato come una politica miope. Trump ha annunciato una stretta sull’immigrazione, Xi ha ribadito che “apriremo le braccia alle persone di altri paesi”. Trump ha coniato la dottrina dell’“America First”, Xi ha ricordato la necessità di una “connessione globale”. Nei fatti, è stato fatto notare, la Cina è ben lungi dall’essere un bastione del liberismo, ma l’impostazione retorica di Xi è fondamentale per capire il mondo in cui ci muoveremo quanto meno nei prossimi quattro anni. Dopo l’elezione di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti, la Cina ha iniziato a prepararsi a un mondo in cui l’America ridurrà il proprio coinvolgimento nei dossier internazionali, rinuncerà a sempre più responsabilità e metterà un prezzo al suo sostegno ad amici e alleati. In questo mondo, Pechino vede un’opportunità. Se gli Stati Uniti rinunciano alla leadership globale, o a parte di essa, la Cina è pronta a farne le veci. L’offensiva di Xi a Davos rientra in questo schema, e non a caso è stata seguita da una dichiarazione importante del ministero degli Esteri di Pechino, questa settimana: “Se è necessario che la Cina assuma il ruolo di leader (dell’economia globale, ndr), allora la Cina si assumerà questa responsabilità”. La ragione, ha detto Zhang Jun, capo degli Affari economici internazionali al ministero, è che la leadership globale tradizionale è ormai carente: “Se la gente vuole dire che la Cina ha assunto una posizione di leadership non è perché la Cina all’improvviso si è lanciata avanti come leader. E’ perché i front runner di un tempo all’improvviso si sono ritratti e hanno spinto la Cina in prima linea”.
Il pivot cinese sull’economia mondiale. Il momento più importante dello switch economico e politico tra Cina e Stati Uniti è arrivato lunedì, quando Donald Trump, con un ordine esecutivo, ha ritirato gli Stati Uniti dal Tpp, Trans Pacific partnership. Il Tpp era un trattato di libero scambio tra paesi del Pacifico che l’Amministrazione Obama aveva adottato come pietra angolare del suo pivot asiatico. L’assertività diplomatica nei confronti dell’espansione dell’influenza cinese, era il ragionamento di Obama, non può essere efficace senza esercitare al tempo stesso una forte leva economica che mantenga viva l’influenza americana in Asia e attenui i legami di dipendenza commerciale tra Pechino e i paesi del Pacifico. Con un colpo di penna, Trump ha spazzato via questa strategia in nome del protezionismo economico (va ricordato, però, che il Tpp era già dato per morto da tempo, vista la riluttanza del Congresso americano ad approvarlo). Improvvisamente i paesi firmatari dell’accordo, dall’Australia alla Malesia al Giappone, hanno visto l’ombrello americano chiudersi sopra le loro teste, e quando si sono guardati intorno per cercare rassicurazioni la Cina era lì pronta. L’uscita dell’America dal Tpp è per la Cina l’occasione perfetta per diventare non solo la potenza economica egemone dell’Asia, ma anche per sostituire l’America come grande hub commerciale nel Pacifico. Un momento dopo il ritiro dell’America, la Cina era già corsa a prenderne il posto, con il governo che annunciava il suo impegno nei confronti del libero commercio e già preparava nuove alternative al Tpp per estendere il suo campo d’influenza economico. La Cina ha già due progetti di accordi di libero scambio che in modi diversi cercavano di contrastare il Tpp: la Free Trade Area of the Asia-Pacific e la Regional Comprehensive Economic Partnership. Martedì il ministero degli Esteri di Pechino ha fatto sapere ai giornalisti che ora che il Tpp non è più sul tavolo, la Cina approfitterà dell’assenza americana e metterà in gioco tutti i suoi strumenti per promuovere nell’area del Pacifico la sua specifica visione di libero commercio. I paesi orfani della leadership americana sembrano ricettivi: il primo ministro australiano, Malcom Turnbull, ieri ha perfino avanzato la possibilità che la Cina entri a far parte del Tpp al posto degli Stati Uniti. Sarebbe la beffa definitiva: Pechino diventerebbe protagonista del grande accordo congegnato inizialmente per contenerla (il cosiddetto “Ttc – tutti tranne la Cina”). Pechino inoltre ha dato nuovo slancio al suo progetto della nuova Via della Seta, la “One belt, One road”, un piano di infrastrutture e investimenti multimiliardario cui hanno già aderito moltissimi paesi dell’Asia centrale e dell’Europa dell’est.
Una potenza cauta, almeno a parole. Due settimane fa, durante l’audizione al Congresso americano, Rex Tillerson, ex ceo di Exxon nominato da Donald Trump alla segreteria di stato, disse che la nuova Amministrazione avrebbe bloccato alla Cina l’accesso alle isole artificiali che Pechino sta costruendo nelle acque contestate del mar Cinese meridionale: “Daremo alla Cina un segnale forte sul fatto che, anzitutto, la costruzione di isole deve finire, e che, in secondo luogo, il loro accesso a quelle isole non sarà consentito”. Pechino considera i tratti di mare in cui le isole sono in costruzione come proprie acque territoriali e, hanno notato gli esperti, mandare navi militari americane a bloccare le navi cinesi può significare una cosa sola: guerra aperta. L’Amministrazione Trump, però, non ha indietreggiato. Lunedì, nella sua prima conferenza stampa ufficiale, il portavoce della Casa Bianca Sean Spicer ha confermato le intenzioni bellicose di Washington: “Il punto è che se queste isole sono in effetti in acque internazionali e non sono parte della Cina allora sì, faremo in modo di difendere i territori internazionali dall’essere conquistati da un solo paese”. Da anni l’America e i suoi alleati asiatici vedono con preoccupazione crescente la militarizzazione sempre più elevata del mar Cinese a opera di Pechino. L’anno scorso, come avvertimento, Washington inviò dei bombardieri B-52 a sorvolare l’area, e John Kerry mise in guardia nei confronti della militarizzazione crescente. Nel luglio del 2016 il Tribunale internazionale dell’Aia diede addirittura ragione alle istanze internazionali, promosse dall’America, sul “diritto alla navigazione”. In quel caso, Washington difendeva gli interessi del suo storico alleato, le Filippine. Ma mentre l’Amministrazione Obama mostrava cautela contro l’assertività cinese, temendo che un atteggiamento troppo duro avrebbe portato a un’escalation fatale, con la vittoria di Rodrigo Duterte alla presidenza a Manila tutto è cambiato definitivamente: Duterte vuole costruire un asse con Pechino e Mosca, svincolarsi dal protettorato americano e lasciare campo libero alla Cina in cambio di aiuti più “concreti” (ieri sono stati siglati accordi da 3,7 miliardi di dollari per “ridurre la povertà” nelle Filippine). Ora che si è insediata l’Amministrazione Trump, decisa per la durezza e possibilista sul “confronto”, la potenza cauta sembra essere diventata la Cina. Certo, i tabloid cinesi come il Global Times hanno tuonato sulla possibilità di uno scontro diretto “devastante”, subito ripresi da tutti i giornali occidentali, ma l’effettiva risposta di Pechino è stata oltremodo paziente, vista soprattutto l’importanza della posta in gioco. Pechino non ha arretrato di un passo sulle sue pretese geopolitiche, ma non ha minacciato, non ha mostrato la furia riservata in altre circostanze alle manovre americane in Asia. Ancora ieri, la portavoce del ministero degli Esteri cinese diceva che la sovranità di Pechino sulle parti contese del mar Cinese meridionale “non è in discussione”, e avvertiva che “l’intenzione della Cina di proteggerà la sue sovranità e i suoi diritti di navigazione nel mar Cinese meridionale non cambierà”. Ma poi richiamava tutti alla calma: “Chiediamo agli Stati Uniti di rispettare i fatti e di parlare e agire in maniera cauta per evitare di danneggiare la pace e la stabilità nel Mar cinese meridionale”. Pechino ha mantenuto lo stesso atteggiamento cauto e apparentemente moderato anche sulle dispute commerciali e sulle minacce di dazi e protezionismo economico sollevate da Trump. La Cina sta prendendo le misure all’Amministrazione Trump, e alcuni analisti dicono che stia già considerando le contromosse in caso di guerra commerciale (e non solo). Ma per ora è Pechino a cercare di presentarsi al mondo come elemento di stabilità geopolitica, anche se i lavori sulle isole artificiali continuano.
I dossier mediorientali: Israele-Palestina, Arabia Saudita-Iran. Nonostante la proverbiale neutralità, negli ultimi anni la capacità della Cina di restare fuori dalle questioni politiche internazionali è stata messa a dura prova, e il suo nuovo ruolo da potenza egemone potrebbe cambiare soprattutto in medio oriente. “Come stato chiave dell’iniziativa della ‘One belt, one road’, Israele ha una posizione geografica unica, un ordine politico e sociale stabile, è un paese tecnologicamente avanzato, tutte caratteristiche di vitale importanza per il successo del coinvolgimento economico cinese in medio oriente. Nello stesso tempo però, data l’importanza di ristabilire l’immagine della Cina sul piano internazionale, in particolare tra gli stati arabi, la Cina è costretta a sostenere le istanze della Palestina”, scriveva sul Diplomat Wang Jin il 10 gennaio scorso: “Ogni volta che nascono tensioni tra Israele e Palestina, la Cina deve camminare sulle uova per evitare di offendere uno dei due”. Come membro permanente del Consiglio di sicurezza dell’Onu, Pechino ha un ruolo cruciale nelle risoluzioni delle Nazioni Unite (legate anche alla questione nordcoreana e iraniana). E’ anche per questo che dopo il voto favorevole della Cina sulla risoluzione 2334, quella che ha condannato come “illegali” gli insediamenti israeliani in Cisgiordania grazie anche all’astensione degli Stati Uniti, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha minacciato di limitare i rapporti diplomatici con gli stati che avevano votato a favore – compresa quindi la Cina. Ma è difficile per Pechino rinunciare a Israele, e negli ultimi anni i rapporti commerciali tra i due paesi si sono rafforzati parecchio. Nel 2013 Netanyahu è stato in visita ufficiale nella capitale cinese, “per celebrare l’amicizia tra i due paesi”, il primo ministro Li Keqiang ricambiò il favore qualche mese dopo visitando Gerusalemme. “Abbiamo una forte affinità con la Cina”, aveva detto Netanyahu, “guardiamo ai successi impressionanti della Cina e pensiamo che la tecnologia israeliana possa aiutare la Cina a raggiungere ancora più prosperità”. Durante una conferenza stampa congiunta con il presidente cinese Xi Jinping, Netanyahu disse pure che Israele dovrebbe ispirarsi alla Grande muraglia che gli antichi cinesi avevano costruito per difendere i propri confini. Ieri sulla versione in lingua cinese del Times of Israel, Zhan Yongxin, ambasciatore cinese in Israele, ha scritto un editoriale per ricordare l’anniversario dell’apertura delle relazioni diplomatiche tra i due paesi, stabilite il 24 gennaio del 1992: “Nel 1992 il commercio bilaterale tra Cina e Israele era di 50 milioni di dollari. Nel 2016 ha superato gli 11 miliardi di dollari. La Cina è diventata il principale partner commerciale di Israele in Asia, ma anche il suo terzo partner commerciale”, e i due paesi stanno intensificando i colloqui per un trattato di libero scambio, mentre i turisti cinesi in Israele nel 2016 sono aumentati di quasi il 70 per cento. Secondo Shlomo Freund di Forbes, sin dal 2011, gli investimenti cinesi in Israele sono aumentati ogni anno del 50 per cento – e l’isolazionismo di Trump potrebbe rendere Israele un ponte tra America e Cina. Quando si parla della questione israelo-palestinese, per la Cina le cose si fanno più complicate. A Pechino Israele è spesso visto come un amico troppo stretto degli Stati Uniti, e nello stesso tempo i rapporti con gli altri paesi del medio oriente sono necessari. Mao Zedong e Deng Xiaoping appoggiavano e sostenevano anche economicamente la causa palestinese, Yasser Arafat era considerato un “vecchio amico della Cina”. Oltre a un enorme rapporto di business, Pechino e Gerusalemme hanno almeno un nemico “quasi” comune: gli estremisti islamici dello Xinjiang da una parte, Hamas dall’altra. Per l’opinione pubblica cinese questa comunanza d’intenti è importante. E come si spiegano, dunque, le parole di Xi Jinping sulla Palestina? Un anno fa, invitato a parlare al Cairo, al quartier generale della Lega araba, il presidente cinese aveva detto che il problema palestinese “non deve essere marginalizzato” e che la Cina “sostiene il processo di pace in medio oriente e la dichiarazione di Gerusalemme est come capitale dello stato di Palestina”. Un anno fa Xi ha compiuto il primo tour del medio oriente da presidente, che lo ha portato in Arabia Saudita, in Egitto e in Iran. A quel tempo gli analisti internazionali continuavano a parlare della Cina come di una potenza incapace di entrare nel merito delle questioni geopolitiche, perché troppo occupata a fare affari (Economist, 23/01/2016). Qualcosa è cambiato. La Cina è stato il primo paese a beneficiare degli effetti del deal iraniano con l’America. Come sempre, dove si apre uno spiraglio, Pechino si tuffa: sta investendo molti miliardi per riattivare gli impianti di raffinerie di petrolio iraniani, che erano caduti in disgrazia dopo anni di sanzioni. Ieri, per esempio, è stato annunciato un deal da 3 miliardi di dollari per ristrutturare la raffineria di Abadan, una delle più importanti del paese. Sempre ieri, per la prima volta negli ultimi sei anni, tre navi da guerra cinesi hanno iniziato un tour degli stati arabi. Hanno attraccato nel porto di Doha, in Qatar, subito dopo aver visitato Gedda, in Arabia Saudita. La Reuters segnalava che nel 2014 la marina cinese aveva visitato per la prima volta anche l’Iran, e subito dopo aveva partecipato alle esercitazioni congiunte con l’Arabia Saudita. Fino a pochi mesi fa Riad era il partner più forte di Pechino nel Golfo, ma dal 2016 la dipendenza da petrolio della Cina si è spostata verso la Russia, che è diventata il più grande fornitore di greggio del paese asiatico.
L’improbabile coscienza ambientalista del mondo. Un altro campo in cui l’Amministrazione americana di Barack Obama aveva cercato di proiettare la sua leadership globale è quello dell’ambiente. Il quarantaquattresimo presidente ha fatto della ratifica del trattato di Parigi uno dei suoi maggiori successi in politica estera, l’ennesimo che Trump si sta preparando a smantellare. Un ottimo esempio è arrivato ieri, quando con un ordine esecutivo il neo presidente ha riavviato la costruzione dell’oleodotto Keystone XL, che era stato bloccato da Obama a causa di varie preoccupazioni di tipo ambientalista. Per ragioni di politica interna e di soft power, la Cina sta prendendo il posto dell’America anche in questo campo. Dal suo palco di Davos Xi ha ricordato l’importanza storica degli accordi di Parigi, e la macchina propagandistica cinese ha in più di un’occasione avvertito Trump di rispettare i suoi impegni in campo ambientale. Mentre Trump abbatteva le politiche ambientali di Obama, la Cina, che è già il più grande produttore al mondo di energie rinnovabili, annunciava un pacchetto di investimenti nel campo da 360 miliardi di dollari da qui al 2020. Certo, Pechino ha un problema gigantesco di inquinamento atmosferico, ed è questa emergenza (che nelle ultime settimane è diventata a tal punto preoccupante da attivare nuovi livelli di censura perfino contro gli istituti che si occupano di rilevare il livello di polveri sottili) a interessare soprattutto il governo comunista. Ma su quest’interesse specifico la Cina sta costruendo un nuovo pilastro della sua rinnovata, discutibilissima, autorità morale.