Mercoledì i Dow Jones ha superato i 20.000 punti (Foto LaPresse)

Cosa c'è dietro alla grande eccitazione dei mercati per Trump

Alberto Brambilla

Lo sviluppismo trumpista ha spinto il Dow Jones oltre il record. Ma anche i media l’hanno aiutato a creare una incerta euforia

Roma. L’euforia della Borsa americana ha avuto scarso effetto ieri sugli altri mercati mondiali che non sono stati condizionati, se non in apertura, dal record storico segnato dall’indice Dow Jones mercoledì con il superamento dei 20 mila punti. Quando l’indice dei titoli industriali, soprattutto, ha infranto quella resistenza s’è udito un fragoroso ruggito venire dal trading floor di Wall Street. La grande fiducia degli investitori deriva dalle mosse del presidente Donald Trump che ha rilanciato progetti industriali colossali (gli oleodotti Keystone XL e Dakota Access) e promette abbassamenti di tasse.

 

L’élite degli affari (rinfrancata anche dall’ottimo status dell’economia americana il cui merito però è di Obama e non di Trump) lo porta in trionfo. È raro sentire dai grandi boss della Corporate America un gemito di disapprovazione verso Trump: Immelt (General Electric), Cote (Honeywell), Fields (Ford), Marchionne (Fiat Chrysler Automobiles), Kleinfeld (Arconic, ex Alcoa), Stephenson (AT&T, in procinto di fondersi con Time Warner) hanno una visione positiva derivante dall’approccio pro business di Trump – persona che fino a poco tempo fa era descritta come “uno che nella vita è stato incapace di fare buoni affari e ora è considerato uno statista”, disse l’ex consigliere economico di Barack Obama, Larry Summers, con livore.

 

Obama non era benvisto dalla Business Roundtable, lobby presieduta da Jamie Dimon (JP Morgan) che unisce i ceo delle principali società americane (6 mila miliardi di ricavi annui e 15 milioni di dipendenti), perché giudicato nonostante tutto non in grado di dare certezze alle imprese. Ora che al comando c’è Mister Unpredictable (il Signor Imprevedibile) gli imprenditori non sono turbati da una politica economica improvvisata e personalizzata (quale sarà la prossima azienda colpita dai tweet di Trump?). Anzi.

 

La Business Roundtable “plaude” agli ordini esecutivi per l’avanzamento dei due oleodotti nordamericani. Eppure l’Economic Policy Uncertainty Index (diverso dal più classico Vix che valuta la volatilità dei mercati) è schizzato dopo la vittoria del repubblicano e punta ai livelli del 9/11, a segnalare il crescente disorientamento prodotto da una revisione dell’ordine mondiale. Che è una condizione troppo complessa da valutare per i mercati, che appunto preferiscono ignorarla, per ora.

 

Ai media invece piace: sono concentrati a descrivere il rapporto di Trump con la verità, con i muri messicani, con le donne. I mercati però non hanno morale (solo se Trump contesterà la supremazia del diritto in un sistema di regole democratico essi si rivolteranno), hanno bisogno di credere, sognare, autoilludersi, anche contro logica, come fa il cervello umano. In questo senso, i media, pur critici di Trump, gli hanno retto il gioco dando estrema enfasi al #Dow20K che è stata alimentata come una storia sensazionale ma che in realtà è una falsa notizia. Il Wall Street Journal e il Financial Times sanno di essere responsabili e ieri, minimizzando il caso, hanno fatto mea culpa. L’indice Dow fu inventato circa 120 anni fa da Charles Henry Dow, statistico e fondatore del Wall Street Journal, come strumento d’analisi tecnica per spiegare l’andamento dei mercati, fino a diventare l’indice più pop di Wall Street.

 

Tuttavia il vecchio Dow non è più molto seguito dagli investitori professionali (piace ai giornali) perché è anacronistico: si basa sulla media dei prezzi delle azioni mentre gli indici moderni pesano la capitalizzazione societaria. Si arriva al paradosso per cui Goldman Sachs, che ha le azioni più costose, più di quanto meriterebbe, conta otto volte più di General Electric che però ha una capitalizzazione di mercato grande il triplo. A ben guardare, l’escursione sopra i 20 mila punti della media dei prezzi dei trenta titoli compresi nel Dow dall’elezione di Trump è generata da cinque sole società (Goldman Sachs, Ibm, Boeing, UnitedHealt e JP Morgan). Meglio non puntare un soldo su questa incerta euforia.

  • Alberto Brambilla
  • Nato a Milano il 27 settembre 1985, ha iniziato a scrivere vent'anni dopo durante gli studi di Scienze politiche. Smettere è impensabile. Una parentesi di libri, arte e politica locale con i primi post online. Poi, la passione per l'economia e gli intrecci - non sempre scontati - con la società, al limite della "freak economy". Prima di diventare praticante al Foglio nell'autunno 2012, dopo una collaborazione durata due anni, ha lavorato con Class Cnbc, Il Riformista, l'Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) e il settimanale d'inchiesta L'Espresso. Ha vinto il premio giornalistico State Street Institutional Press Awards 2013 come giornalista dell'anno nella categoria "giovani talenti" con un'inchiesta sul Monte dei Paschi di Siena.