Se Trump fa un passo indietro nel mondo, l'Ue può farne uno in avanti. Anche due
Macron è l’unico che in Francia può fare una “wake up call” all’Europa
Il destino dell’Europa è nelle nostre mani, scrive Emmanuel Macron sul Financial Times, non restiamo a guardare, non perdiamoci nelle lagne o nelle paure o nella rabbia, alibi mondiale di ogni destabilizzazione: diventiamo quel che vogliamo essere. Macron è candidato alle presidenziali francesi con il suo movimento En Marche! ed è l’unico leader europeista in corsa: non è del tutto europeista François Fillon, che votò “no” al referendum su Maastricht nel 1992, è “molto cambiato” successivamente, ma è rimasto attaccato a un’Europa franco-centrica; non è certo europeista Benoît Hamon, che spera di vincere le primarie socialiste domenica e diventare così il candidato del Ps all’Eliseo; e non c’è nemmeno da parlare di Marine Le Pen, leader del Front national, che sventola l’ipotesi di una “Frexit” a sostegno della propria insofferenza nei confronti di Bruxelles (la Le Pen detesta Macron come nessun altro, lo definisce il “Justin Bieber della politica”, s’infuria quando lo sente parlare in inglese invece che in francese).
Macron è l’unico che in Francia può fare una “wake up call” all’Europa, ed è quello che ha fatto con il suo editoriale sul quotidiano della City: hanno ragione il premier inglese Theresa May e il presidente americano Donald Trump – ha scritto – quando dicono che il mondo di ieri è finito, “oggi ciascuno nel proprio paese vuole decidere il proprio destino” e “il consenso che ha permesso all’Europa di essere governata dalle élite per le élite è finito”. Nella proposta di restaurazione europea, Macron inserisce apertura economica, investimenti su una difesa comune, rappresentatività, ma soprattutto sottolinea che l’Europa deve accettare il fatto che l’America non è più lì pronta a proteggerla e a tenerla in piedi. Anzi, l’America di Donald Trump, se si avvicina ancora un po’ alla Russia di Vladimir Putin, diventerà complice dello stritolamento dell’Europa, ma è proprio adesso che tutto sembra perduto, proprio adesso che con la Brexit l’Ue dovrà affrontare una prima assoluta – una nazione che se ne va, dopo che molte altre hanno fatto di tutto per entrare – che gli europei possono prendere in mano il loro destino.
L’istinto europeista di Macron non è molto comune, ma non è nemmeno solitario. C’è quello di Angela Merkel, cancelliera tedesca candidata a settembre per il quarto mandato, che ancora lunedì ha ribadito l’importanza di avere società aperte e liberali, e di rispondere all’odio e alla paura senza richiudersi in se stessi. Parlando a un incontro di leader ecclesiastici a Würzburg, la cancelliera ha detto: “Non andremo da nessuna parte se cercheremo di risolvere i nostri problemi con la polarizzazione e il populismo”, “il ritorno a un mondo piccolo” non porterà benefici alle nostre società, che si ritroverebbero più deboli e senza difese. I commentatori tedeschi hanno interpretato l’intervento della Merkel come una risposta alla visione del mondo delineata da Trump, il quale s’era già premurato di precisare ancor prima di entrare alla Casa Bianca che la politica di apertura agli immigrati della Merkel è stata “un errore assolutamente catastrofico”, forse persino fatale, pare augurarsi il neopresidente. Ma la Merkel non parla soltanto all’America, anzi, parla soprattutto all’Europa: l’invito a perseguire una volontà di apertura e di globalizzazione è quel che può determinare la sopravvivenza stessa dell’Unione europea.
Uno dei biografi di Merkel, Stefan Kornelius, ha detto qualche tempo fa al New York Times che la cancelliera è “the last one standing”, l’ultima rimasta, e questo la rende da un lato fortissima – “un pilastro di stabilità, l’ultimo muro contro il dilagare del populismo” – e dall’altro molto debole, perché oggi c’è tantissima gente che “vuole buttarlo giù”, quel muro. Ma sarà che la retorica del muro è fin troppo dolorosa per Merkel e per buona porta degli europei, sarà che l’aggressività dei russi è diventata ormai evidente, ma il coro di chi dice all’Europa di prendere in mano il proprio destino e di non chiudere, per nessuna ragione, le porte alle merci e alle persone si sta facendo un pochino più forte.
Cecilia Malmström, commissaria europea per il Commercio, parlando a una conferenza sul futuro delle politiche di libero scambio, ha detto: “Coloro che pensano che nel XXI secolo possiamo diventare di nuovo grandi ricostruendo confini, reimponendo barriere commerciali e limitando la libertà di movimento delle persone sono destinati al fallimento”. La commissaria svedese ha ricordato i “giorni bui” della storia europea, “costruire muri non è una risposta”, ha aggiunto, sottolineando che l’Unione europea, pure senza il Regno Unito, resta il più grande blocco per il commercio di tutto il mondo. Se l’America si ritira, suggerisce la Malmström, l’Europa avanza: sta già avvenendo con i paesi del Tpp, restati brutalmente orfani degli americani per volontà di Trump, “dobbiamo farci avanti – ha concluso il commissario – anche se gli altri si stanno disimpegnando temporaneamente, o per chissà quanto tempo”. Ryan Heath di Politico ha raccontato nella sua newsletter mattutina Brussels Playbook che anche Jyrki Katainen, vicepresidente della Commissione e commissario per il Lavoro, la Crescita, gli Investimenti e la Competitività, ha detto a una conferenza di eSharp! martedì che “l’Europa ha bisogno di una rinnovata mentalità riformatrice” e che i paesi del nord dell’Europa sono la prova che “la globalizzazione non aumenta automaticamente le diseguaglianze”.
Si dirà che questi leader hanno da sempre un’ispirazione liberale che però è risultata perdente a ogni votazione: certo, ma questo è un momento in cui l’Europa rischia la propria sopravvivenza non tanto o non solo per le sue note divisioni e contraddizioni interne, ma a causa di una minaccia che è anche esterna e che riguarda la volontà trumpiana di unire al protezionismo una revisione delle alleanze all’interno della Nato, e la volontà putiniana di sostenere e finanziare i movimenti e i partiti che hanno nel loro programma lo smantellamento dell’Ue. Giles Merritt, che ha scritto di Europa sul Financial Times e sull’Herald Tribune per trent’anni e oggi è il presidente di Friends of Europe, ha pubblicato ieri un commento che è una provocazione allettante: “La presidenza di Donald Trump può essere un regalo per i politici dell’Europa travagliata e divisa, anche se arriva in un pacchetto su cui c’è scritto ‘maneggiare con cura’ e ‘pericolo’”. Merritt dice che la disaffezione che ha portato Trump alla Casa Bianca è la stessa che ha determinato la Brexit e l’ascesa di partiti populisti, ma “questo non significa che l’Amministrazione Trump riuscirà a sfruttare le forze populiste al di qua dell’Atlantico” perché a questi movimenti manca una formulazione convincente di politiche per combattere la disoccupazione strutturale e il declino della competitività. “Gli elettori europei hanno via via dimenticato a che cosa serve l’Ue – scrive Merritt – Gli slogan ‘mai più guerre’ e ‘stronger together’ non sono più accattivanti, ma quel che invece può avere risonanza è l’antagonismo che arriva dall’altra parte dell’oceano”. Per rispondere a queste ostilità, l’Europa potrebbe finalmente riscoprire i benefici della sua unione, aver voglia di rilanciarsi senza ripiegarsi su se stessa, riprendere in mano il proprio destino.