Chi resta nel Nafta
Trump contro l’accordo di libero scambio nordamericano. Il Messico ha le spalle al muro
Roma. “Il Messico è appeso per i piedi fuori dalla finestra di un grattacielo”. Con quest’immagine un funzionario del governo canadese ha definito la posizione negoziale del governo di Città del Messico davanti al presidente americano Donald Trump, che con un ordine esecutivo ieri ha annunciato l’inizio della costruzione della nuova Grande muraglia (così l’ha definita Trump stesso in un vecchio tweet) e nei prossimi giorni si prepara a smantellare e rinegoziare l’accordo di libero scambio Nafta, motore della crescita economica del Messico negli ultimi 25 anni. Il Nafta, entrato in vigore nel 1993, è il progenitore di tutti i grandi accordi commerciali multilaterali odiati da Trump: firmato dai tre paesi dell’area nordamericana (Canada, Stati Uniti, Messico), ha consentito al Messico di diventare il grande retrobottega dell’industria manifatturiera americana, e ha integrato in modo pacifico l’intera area: oggi il Canada invia il 75 per cento della sua esportazione negli Stati Uniti e il Messico quasi l’ottanta per cento, ma al tempo stesso i due paesi sono rispettivamente il primo e il secondo mercato al mondo per i beni statunitensi. Gli economisti sono concordi nel giudizio sul Nafta: l’accordo ha aiutato le economie di tutti i contraenti.
Ma la grande ondata populista e protezionista che ha colpito l’America non rispetta il giudizio degli esperti. Donald Trump ha definito il Nafta “probabilmente il peggior accordo commerciale mai siglato”, echeggiato da Bernie Sanders. Dalle elezioni americane, il governo messicano è in stato di emergenza e cerca di trovare modi per rendere il meno traumatico possibile l’impatto del ciclone Trump. Per ora non sta andando molto bene. Il peso è ai minimi storici, i messicani sono arrabbiati a causa di un aumento del prezzo della benzina dettato dalla cattiva congiuntura economica e Trump ha pilotato via Twitter una serie di chiusure di fabbriche statunitensi a sud del confine. Il ministro degli Esteri Luis Videgaray, richiamato in servizio questo mese per la sua presunta vicinanza alla nuova Amministrazione, è atterrato ieri a Washington per preparare il terreno ai negoziati, ed è stato accolto con la firma dell’ordine esecutivo sul Muro. I negoziati ufficiali inizieranno alla fine del mese con la visita del presidente messicano Enrique Peña Nieto negli Stati Uniti, e il Messico sembra davvero avere le spalle al muro: perfino i canadesi, che esportano negli Stati Uniti a livelli comparabili ma hanno un’economia molto più diversificata, hanno abbandonato il tavolo: “Amiamo i nostri amici messicani, ma l’interesse nazionale viene prima di tutto”, ha detto a Reuters lo stesso funzionario canadese, facendo capire che il Messico sarà da solo davanti a Trump al momento dei negoziati.
Lunedì Peña Nieto ha detto che giocherà tutte le sue carte con Trump, e che se Trump vuole rinegoziare gli accordi commerciali, allora bisognerà ripensare anche i rapporti su sicurezza, immigrazione, lotta al narcotraffico: “Vediamo se il suo muro terrà fuori i terroristi dall’America, perché noi non lo faremo”, ha minacciato l’ex ministro degli Esteri Jorge Castañeda parlando con il New York Times. Ma anche così, il Messico rischia di vedersi imporre condizioni capestro, e per la prima volta perfino i più liberisti hanno iniziato a pensare l’impensabile: uscire dal Nafta. Anche senza l’accordo liberoscambista, è il ragionamento, i rapporti commerciali tra i due paesi sarebbero regolati dalle basse tariffe del Wto: meno convenienti di quelle decise con il Nafta, ma non tragiche. “Potrebbero non esserci altre opzioni”, ha detto martedì il ministro dell’Economia messicano, Ildefonso Guajardo, e già gli economisti liberisti stanno iniziando a rimuginare sulla possibilità di creare accordi bilaterali con le grandi potenze economiche del nuovo mondo, dalla Cina in giù, e dare slancio al settore manifatturiero approfittando del peso basso: una specie di “clean Mexit”, con il Messico fuori dal mercato unico nordamericano. Il progetto per ora è remoto e difficilmente realizzabile: molto più probabile è che le sberle economiche di Trump destabilizzino le già fragili istituzioni del Messico, dove le forze populiste sono prime in tutti i sondaggi.
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