Senza Visa
Iracheni e siriani no, sauditi sì. Trump pensa ai visti d’ingresso con un occhio al terrore e l’altro ai soldi
Roma. Ieri sono cominciate a circolare le bozze di quattro ordini esecutivi preparati dall’Amministrazione Trump e una riguarda i visti d’ingresso in America concessi ai cittadini di altri paesi. Secondo la bozza, che dev’essere ancora approvata e può essere emendata, l’America bloccherà per trenta giorni i visti d’ingresso in America ai cittadini di almeno sette paesi: Iraq, Iran, Siria, Yemen, Sudan, Libia e Somalia, come parte del programma annunciato durante la campagna elettorale (che prevedeva un divieto d’ingresso generico “per tutti i musulmani”, ma è una definizione così ampia da diventare molto problematica in fase d’attuazione). In quei trenta giorni le agenzie di sicurezza americane dovranno decidere quali dati chiedere ai governi dei paesi nella lista per avere la sicurezza che chi chiede il visto d’ingresso non sia un soggetto pericoloso. Se i governi non risponderanno alla richiesta di dati, c’è il rischio di un blocco effettivo dei visti d’ingresso in America per i loro cittadini. Inoltre, con un provvedimento che fa parte dello stesso ordine esecutivo ma è separato, l’arrivo di rifugiati siriani sarà sospeso.
I numeri degli ingressi all’anno dai paesi sulla lista sono più consistenti di quello che si potrebbe pensare. Se si prendono i dati relativi all’anno 2015, i visti d’ingresso temporanei (quindi la maggioranza, per studio, lavoro non qualificato, turismo, ecc.) concessi a iracheni sono stati 35 mila, a iraniani altri 35 mila, a siriani 10 mila, a sudanesi 5 mila, a yemeniti 4.500, a libici tremila e a somali trecento. Tanto per avere due termini di paragone: nello stesso anno sono stati concessi visti d’ingresso a 29 mila italiani e a 150 mila russi, due categorie che arrivano da paesi non in guerra ma con molti più abitanti. Tuttavia, la bozza dell’ordine esecutivo di Trump – che dovrebbe essere annunciata in pubblico dall’Amministrazione oggi – parla soltanto dei visti permanenti, che di solito sono assai meno e sono già molto difficili da ottenere. Per esempio, nel 2016 i visti d’ingresso concessi a immigrati iracheni sono stati circa tremila. Ma si tratta appunto di una bozza, che può cambiare, e non di un testo definitivo.
Il ragionamento che sta alla base della creazione della lista è che meno ingressi in America dai paesi a rischio vuol dire potenzialmente meno rischi, come fu esemplificato da un meme molto controverso che circolava in campagna elettorale e mostrava l’immagine di una ciotola colma di caramelle accompagnata dalla scritta: “Se io ti dicessi che tre di queste caramelle sono velenose e ti ucciderebbero, ne prenderesti una manciata? Questo è il nostro problema con i rifugiati siriani”. Lo schema è stato allargato anche ai non rifugiati e a sette nazionalità almeno.
Il fenomeno del terrorismo islamico – che per definizione non ha nazionalità – e quello specifico dei foreign fighters, vale a dire dei volontari anche europei e americani che vanno ad arruolarsi in gruppi estremisti in altri paesi, indebolisce questo tipo di misure preventive. Gli attacchi dell’11 settembre 2001 furono compiuti da quindici dirottatori sauditi, due degli Emirati arabi uniti, un egiziano e un libanese, tutti addestrati in Afghanistan. L’attacco terroristico più devastante del 2016 in America è stato fatto da un americano, figlio di immigrati afghani.
La lista ha anche un significato politico, vale a dire che l’Amministrazione Trump è impegnata in considerazioni di convenienza e di strategia prima di annunciare i nomi dei paesi. Per esempio non sono menzionati l’Arabia Saudita – 150 mila visti temporanei all’anno, più di tutti i paesi sulla lista messi assieme – il Qatar, che vale più di novemila visti temporanei, e gli altri regni sunniti del Golfo, accusati da decenni di essere il motore immobile dell’estremismo islamico nel mondo. Anche il Pakistan, che è uno degli stati più pericolosi al mondo per colpa del terrorismo islamico e vale 74 mila visti temporanei all’anno, e l’Egitto, che ne vale altri 55 mila, non sono citati dall’anticipazione Reuters. E’ chiaro che in questi casi il peso politico prevale su ogni altra considerazione. Due giorni fa l’Amministrazione Trump non ha bloccato la vendita di materiale bellico per 525 milioni di dollari all’Arabia Saudita (palloni aerostatici per sorveglianza) e di altri 400 milioni di dollari al Kuwait (missili aria-aria e parti di ricambio per elicotteri da guerra) che era già stata decisa dall’Amministrazione Obama. Forse creare turbolenze con gli alleati tradizionali dell’America nel Golfo per ora non è raccomandabile nemmeno per il Trump iperattivo della prima settimana di presidenza, per non turbare contratti importanti per l’industria americana (a ottobre 2016 Boeing ha vinto un contratto per produrre aerei che saranno comprati dal Qatar, vale circa 25 miliardi di dollari) e non complicare ancora di più lo scenario in medio oriente (anche lo spostamento dell’ambasciata presso Israele da Tel Avivi a Gerusalemme non sarà così semplice, per questo motivo).
Il discorso opposto vale per l’Iran, che è sulla lista dei candidati esclusi anche se non fa parte degli stati infestati da gruppi terroristici sunniti come lo Stato islamico e al Qaida. L’Iran genera meno lupi solitari della Francia ed è più una minaccia di tipo convenzionale, con le sue armi e le sue milizie, ma il divieto d’ingresso sarà il primo segnale ostile da parte di Amministrazione che è spiccatamente anti iraniana.