Paolo Gentiloni durante un incontro sulla Libia a Vienna (foto LaPresse)

Gentiloni rinunci (per ora) alla Libia unita. Parla Scaroni

Alberto Brambilla

“Sostenere il vasto programma del debole Serraj non ci aiuta a fermare gli immigrati economici da Tripoli”

Roma. Paolo Scaroni, capo dell’Eni per un decennio, ora deputy chairman di banca Rothschild, parte da lontano per spiegare come l’Italia potrebbe raddrizzare la sua difficile posizione nella vicina e strategica Libia dopo cinque anni di caos bellico e superare l’attuale aspra contesa interna tra il governo di Fayez al Serraj in Tripolitania, sostenuto da Roma e dalle Nazioni Unite, e quello del generale Khalifa Haftar in Cirenaica, bene armato e fiancheggiato dal vicino Egitto, per evitare una penosa guerra civile su ampia scala: abbandonare l’intento, ormai anacronistico, di tornare a una Libia unita.

“I venti nel Mediterraneo, e in molte parti del mondo vanno da ovest verso est. E siccome nell’antichità, fino al 1400, le navi non erano in grado di stringere il vento, i commerci si svolgevano lungo la direttrice nord-sud perché lungo quella ovest-est le navi rischiavano di non tornare più indietro: avrebbero avuto il vento contro. Il risultato – dice Scaroni – è che la Tripolitania (est Libia) e la Cirenaica (ovest) hanno sempre avuto rapporti molto limitati. La prima aveva relazioni con la Sicilia, la seconda con la Grecia. Nell’Impero Ottomano, la Tripolitania, la Cirenaica e il Fezzan – regione spopolata a nell’entroterra a sud-ovest – sono sempre state separate, con tre emissari di Costantinopoli: non era affatto uno stato”, dice Scaroni per spiegare come per cause ancestrali e naturali le due regioni ora in lotta sono destinate a rimanere separate, per qualche tempo, contrariamente all’idea di una Libia unita che Roma ha creato a bella posta in epoca coloniale e che tuttora insegue.

“L’Italia nel 1911-’12 ha preso questi tre pezzi dell’Impero Ottomano e li ha conservati separati fino al 1934 quando il generale Graziani li ha messi insieme e ha creato lo stato della Libia: è una creazione recente degli italiani che si sono addirittura inventati il nome che in origine era il nome latino con il quale i romani chiamavano il Nord Africa. Queste regioni sono state tenute insieme prima dall’occupazione inglese, poi dal pugno di ferro di Gheddafi senza il quale le tendenze separatiste delle due regioni principali, Tripolitania e Cirenaica, sono naturali per la storia libica”.

Rimpiange Gheddafi? “Non lo rimpiango, è impossibile, contro natura, non si può. Sarebbe come rimpiangere Hitler che avrà fatto le autobahn, e pure bene, in Germania ma non si può rimpiangere un dittatore spietato. Rimpiango il fatto che noi europei dopo avere aiutato a cacciare Gheddafi, abbiamo considerato il compito esaurito mentre avremmo dovuto accompagnare la Libia verso un percorso finalizzato al rafforzamento delle istituzioni. E invece ci troviamo nel caos totale di questi anni”. Non è improprio paragonare Hitler a Gheddafi? Il primo aveva la nazione dalla sua per ragioni ideologiche, il secondo grazie a un continuo compromesso tra fazioni. “Un punto chiave: Hitler è stato al potere tredici anni, Mussolini venti, Gheddafi quarantuno. La durata è importante, ha fatto fuori intere generazioni: chi era suo oppositore e a vent’anni andava all’estero e stava fuori per quaranta anni. Quando rientrava non sapeva nulla del suo paese: chi tornava era straniero in patria”. Quindi era impossibile costruire alternative di governo? “Il passaggio alla democrazia è stato appunto aggravato da questa ragione. Quando in Italia c’era Mussolini, anche gli esuli, sarebbero tornati un decennio dopo: non quarant’anni dopo!”.

Cosa significa questo nel post Gheddafi e nel punto in cui siamo ora? “Finora s’è fatto un tentativo encomiabile di ricreare la Libia. Serraj è stato visto come la persona su cui l’occidente, e certo l’Italia, punta per avere una Libia unita come prima, possibilmente democratica. Ma Serraj ha davanti un problema colossale: non è solo quello di creare delle istituzioni in un paese che non le ha, dare ordini a un paese che vive nel caos da un lustro, e senza un esercito. Non ha niente di tutto questo. E in più ha il compito gigantesco, addizionale, di portare a casa la Cirenaica”. Anzi ha contro Haftar che spinge su Misurata e potrebbe aggredire la Tripolitania. Non crede? “A Bengasi non c’è bisogno di girare con la scorta, a Tripoli invece sì. E poi Haftar sta creando un nuovo rapporto con la Russia che lo rafforzerà. Già, è noto, gode dell’appoggio dell’Egitto…”. E di Francia e Regno Unito: che gioco fanno? “Fanno un ragionamento come il mio – al quale giungo a breve – tutto realista più che ideologico: lì c’è un leader che comanda, Haftar, che è riuscito a portare ordine, perché osteggiarlo? Perché dovrebbero fare anche la battaglia per l’unificazione contro di lui?”.

Come l’Italia si è occupata della Libia e come dovrebbe occuparsene? “Non si può immaginare che un paese che non ha mai avuto un’esperienza democratica riesca da solo a costruire istituzioni efficaci. Come i francesi si occupano del rafforzamento delle istituzioni della France-Afrique così molti si aspettavano che noi prendessimo l’iniziativa. Serviva ben altro impegno. L’Italia dovrebbe pensare innanzitutto alla Libia che è la nostra proiezione internazionale. Il ministro dell’Interno Marco Minniti ha preso la cosa per il verso giusto, se ne occupa, ma finora è stato complesso farlo: la politica estera richiede serenità politica all’interno della nazione. Comunque qualche velleità l’abbiamo: abbiamo aperto l’ambasciata a Tripoli quando nessun altro paese occidentale l’ha fatto; un po’ sentiamo questa responsabilità”.

 

Le politica sui migranti si fa in Tripolitania

L’America aveva investito Roma di occuparsi della Libia, da Monti e Letta in poi, e da ultimo il segretario di stato Rex Tillerson (ex capo di ExxonMobil), che lei conosce bene, ha ricordato il dovere: cosa cambia con Donald Trump? “Vedremo quel che farà. Ma quando dice ‘America first’ vuol dire che tutto quello che non è vicino agli interessi degli Stati Uniti sarà lasciato da parte. Aggiungiamo che la posizione di Trump nei riguardi di Europa e Nato è un po’ quella di dire ‘fate anche voi i vostri compiti a casa in politica estera’”. Quali sono gli attuali compiti per l’Italia? “Abbiamo un problema in più: dobbiamo assolutamente controllare il flusso di migranti”.

Può dunque continuare la politica di accoglienza sostenuta dal Vaticano e da pezzi d’establishment nazionale? “Una politica attiva è urgente: non possiamo avere 181 mila persone l’anno che in gran parte per ragioni economiche scelgono di venire a vivere in Europa. Distinguo bene tra rifugiati e immigrati economici: è chiaro che tutti i 900 milioni di africani starebbero meglio in Europa, ma cosa facciamo? Non siamo in grado di gestire un flusso incontrollato. Ed è dalla Tripolitania [di Serraj] che partono gran parte dei barconi. A noi interessa che in Tripolitania ci sia un governo col quale possiamo trattare, aiutarlo a proteggere le sue frontiere e a fermare il traffico di esseri umani”.

Qual è dunque una possibile soluzione? “Un po’ di realpolitik ci potrebbe portare ad accettare di non avere la Libia unita domani ma di avere Tripolitania e Cirenaica separate e cercare di rafforzare un’istituzione in Tripolitania. In futuro vedremo. Meglio avere due paesi solidi che cercare di costruirne uno senza riuscirci. Il grande vantaggio della Libia è che c’è petrolio sia a est sia a ovest: le due regioni possono reggersi economicamente separate. Dio è stato così generoso con la Libia che, oltre a duemila chilometri di spiagge sul Mediterraneo, le ha dato risorse petrolifere quasi di pari forza a est e a ovest”.

Le sue posizioni in Libia l’Eni le ha mantenute oppure le ha perse? “Ha una posizione fortissima lì, ha i contratti blindati, e i contratti con la compagnia di stato libica si rispettano. Le major estere non hanno guadagnato terreno. Certo è vero che tutti hanno perso produzioni ma stanno recuperando. Deve farlo anche la politica”.

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  • Alberto Brambilla
  • Nato a Milano il 27 settembre 1985, ha iniziato a scrivere vent'anni dopo durante gli studi di Scienze politiche. Smettere è impensabile. Una parentesi di libri, arte e politica locale con i primi post online. Poi, la passione per l'economia e gli intrecci - non sempre scontati - con la società, al limite della "freak economy". Prima di diventare praticante al Foglio nell'autunno 2012, dopo una collaborazione durata due anni, ha lavorato con Class Cnbc, Il Riformista, l'Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) e il settimanale d'inchiesta L'Espresso. Ha vinto il premio giornalistico State Street Institutional Press Awards 2013 come giornalista dell'anno nella categoria "giovani talenti" con un'inchiesta sul Monte dei Paschi di Siena.