La versione dei repubblicani che considerano il divieto d'ingresso una ferita all'America (anche morale)
Molti nel Gop si rivoltano contro il provvedimento trumpiano. I guai tecnici e la questione dei valori
Milano. Per molti repubblicani l’ultimo executive order di Donald Trump rappresenta un rischio procedurale, nel merito e anche morale per l’America intera. C’è chi dice che la lotta al terrorismo jihadista si indebolirà nel momento in cui molti paesi musulmani alleati degli Stati Uniti saranno coinvolti dal divieto d’ingresso; c’è chi si limita a chiedere revisioni tecniche inevitabili a un provvedimento che non ha coinvolto né il Congresso né i dipartimenti interessati. Ci sono poi gli intellettuali che chiamano alla chiarezza morale: o difendiamo ora i valori americani, o affonderemo tutti.
I repubblicani americani sapevano da tempo che la riconciliazione con il loro presidente, Donald Trump, sarebbe stata faticosa, ma ora si stanno rendendo conto che sarà anche brutale. Trump ha firmato l’ultimo executive order – quello sull’immigrazione – senza consultarsi con il dipartimento della Sicurezza nazionale né con quello della Giustizia né con il Congresso, come ha confermato una fonte a Mike Allen, che riporta nella sua newsletter: “I leader del Congresso non hanno partecipato alla stesura dell’ordine e la Casa Bianca non ha spiegato loro come funziona”. Il mancato coinvolgimento non è una novità, anzi, lo scetticismo di Trump nei confronti dei suoi compagni di partito emerge di continuo: al ritiro dei repubblicani in Pennsylvania la scorsa settimana, il presidente indicava con il dito i leader locali che continuavano a dirgli “non potrai mai vincere in questo stato”, facendosi beffa di loro. Ma con il divieto di ingresso ai cittadini di alcuni stati musulmani c’è stato un cambio di passo nella percezione della presidenza e soprattutto nella possibilità – o capacità – di condizionare la volontà di Trump.
La faida è iniziata subito tra il presidente e due dei senatori allo stesso tempo più critici e più riconoscibili, John McCain e Lindsey Graham, i quali hanno pubblicato una dichiarazione congiunta in cui spiegano che l’executive order rischia di avere l’effetto opposto rispetto alle premesse: non rendere più sicuri gli Stati Uniti, ma più vulnerabili. “Temiamo che questo provvedimento diventerà una ferita autoinflitta nella lotta al terrorismo – scrivono i due senatori – In questo momento le truppe americane stanno combattendo fianco a fianco con i partner iracheni contro lo Stato islamico. Ma questo executive order vieta ai piloti iracheni di raggiungere le basi militari in Arizona per combattere il nemico comune. I nostri alleati più importanti nella lotta allo Stato islamico sono quella gran maggioranza di musulmani che rifiutano la sua ideologia apocalittica di odio. Questo provvedimento manda un segnale, intenzionale o no, sul fatto che l’America non vuole musulmani nei suoi confini, per questo temiamo che così si alimenterà il reclutamento jihadista piuttosto che ridurlo”. Trump ha risposto via Twitter ai due senatori dicendo loro di “concentrare” le loro energie “sullo Stato islamico e la sicurezza dei confini piuttosto che pensare sempre all’inizio della Terza guerra mondiale”. Ma l’idea che il segnale politico agli alleati sia potenzialmente devastante è condivisa anche da altri senatori. Ben Sasse, del Nebraska, ha tematizzato la questione in modo preciso: “Ci sono due modi per perdere la guerra di questa generazione contro il jihadismo. La prima è continuare a credere che il terrorismo jihadista non abbia connessioni con l’islam o con certi paesi. E poi c’è una seconda modalità di sconfitta: se diciamo al medio oriente che l’America considera tutti i musulmani jihadisti, i terroristi vinceranno dicendo ai loro figli che l’America vieta l’accesso ai musulmani e che questo scontro è tra l’America e una religione”, la loro.
Mentre altri politici hanno posto questioni procedurali e tecniche – come il più importante di tutti, Bob Corker, che è il presidente della commissione Esteri del Senato e chiede “revisioni appropriate” – la questione valoriale, chi siamo e cosa vogliamo essere per il resto del mondo, è quella che ha scosso di più gli intellettuali conservatori. Lo stesso vicepresidente Mike Pence, quando ancora era in campagna elettorale e Trump parlava del “muslim ban”, disse che un provvedimento del genere era “anticostituzionale”, così come altri leader repubblicani ripetevano che la libertà di religione è uno dei fondamenti degli Stati Uniti, comprometterla è come compromettere l’anima americana: in una parola “un-american”. Per un intellettuale come Eliot Cohen il segnale trumpiano è chiaro, e la reazione deve essere altrettanto chiara: “Per la comunità di pensatori conservatori – ha scritto l’intellettuale sull’Atlantic – e ancor più per i politici conservatori, questo è un ‘testing time’. O si difendono i propri valori, o si affonda, se non ora tra qualche anno, tacciati come codardi e opportunisti. La vostra reputazione non si restaurerà mai, come è giusto che sia”.