Foto LaPresse

Chi ha ucciso Ko Ni?

Massimo Morello

Il consigliere musulmano di Aung San Suu Kyi fatto fuori nel pieno della crisi dei Rohingya. La difficile transizione birmana

“U”. In birmano è un titolo onorifico che si premette al nome di uomini degni di rispetto. È il caso di U Ko Ni, 65 anni, avvocato, consigliere legale della National League for Democracy, il partito di Aung San Suu Kyi, musulmano. Assassinato nel pomeriggio di domenica 29 all’uscita dall’aeroporto di Yangon. Era appena rientrato dall’Indonesia, dove una delegazione birmana aveva discusso del problema dei Rohingya, la minoranza musulmana che è divenuta oggetto, causa, pretesto di uno scontro etnico, religioso e culturale che si sta diffondendo in tutto il Sudest asiatico. Anche la notizia dell’assassinio ha avuto rilievo sui media globali proprio perché connessa alla questione Rohingya. Quasi che l’intricata situazione birmana e del Sudest asiatico possa essere interpretata solo in questa chiave, in termini più facilmente comprensibili in Occidente. Dove, del resto, il termine “U” è parte integrante del nome. Come dire: “il Signor U”.

 

L’assassinio di Ko Ni è stato subito definito dal governo del Myanmar (nome ufficiale della Birmania) come un atto terroristico. Per la maggior parte degli osservatori la sua è una morte annunciata che può avere solo due moventi: l’estremismo buddista sempre più diffuso in Birmania o l’impegno di Ko Ni per le riforme costituzionali che dovrebbero limitare il potere dei militari. «Sono un obiettivo» aveva dichiarato lo stesso U Ko Ni nel 2015 a Fortify Rights, organizzazione per i diritti umani basata in Sudest asiatico. «Sia perché sono il consigliere legale di Aung San Suu Kyi e della Nld. Sia perché sono membro del comitato centrale per la riforma costituzionale».

 

Secondo l’ufficio della presidenza (di cui è responsabile la stessa Suu Kyi) c’è un terzo motivo, che è la sommatoria dei due precedenti: «minare la stabilità del paese», un equilibrio molto precario che la Signora sta cercando di mantenere nonostante le critiche interne e, soprattutto, esterne. Il paradosso, infatti, è che l’assassinio di Ko Ni, giudicato “insostituibile” da parte della Nld, potrebbe far tanto comodo ai militari, quanto rivelarsi dannoso per la Nld, in particolare per la Signora. L’assassinio di Ku Ni rischia di far esplodere quella reazione a catena che Aung San Suu Kyi ha cercato sino ad ora di disinnescare.

 

I militari, infatti, non hanno rinnegato la loro tradizione etnocratica e continuano a rappresentarsi come i difensori dell’identità bamar (etnia maggioritaria in Birmania), di fede buddhista. Lo stesso Ashin, il Maestro, Wirathu, leader del movimento buddhista più integralista, è considerato un agente provocatore dei militari e la comunità monastica, nelle scorse elezioni - che hanno visto la schiacciante vittoria della Nld - si è in gran parte dichiarata contraria al partito di Suu Kyi. Nonostante ciò, almeno agli occhi dell’Occidente, la Signora sembra essere la maggior responsabile della tragedia Rohingya, perseguitati in Birmania e rifiutati ovunque. Secondo molti, infatti, non ha condannato con sufficiente forza la loro persecuzione. Anzi è rimasta in colpevole “silenzio”. Anche dopo l’assassinio di Ko Ni, ci sono stati alcuni che hanno fatto rilevare come l’avvocato avesse criticato esplicitamente la politica dell’Nld riguardo i Rohingya e i musulmani in generale. «Non sarebbe mai potuto sfuggire al fatto che era musulmano» scrive Melissa Crouch, una studiosa australiana, ricordando che nel 2014 l’Nld aveva cancellato un suo discorso in seguito alle proteste dei monaci. 

 

La questione Rohingya, nel frattempo, viene alimentata dal sempre più diffuso islamismo in Sudest asiatico, che trova nuove forme di comunicazione anche in Birmania, dove oggi possono operare una trentina di giornalisti di“Rohingya Vision”, emittente con sedi in Malaysia e Arabia Saudita. La regione in cui riuscivano a convivere il maggior numero di etnie e religioni, rischia così di contaminare il suo ecosistema culturale di tolleranza e diversità. “Esiste la minaccia di un estremismo religioso e di una radicalizzazione etnica che potrebbe aprire in Sudest asiatico un nuovo fronte nello scontro tra culture e religioni, questa volta tra buddisti e musulmani, che potrebbe spaccare la regione” ha scritto l’ex diplomatico thai Kobsak Chutikul.

 

In questa prospettiva in Birmania potrebbero verificarsi due scenari. Nel primo i militari assumerebbero il potere avvalendosi della norma costituzionale che consente al Capo di Stato Maggiore di dichiarare lo stato di emergenza nazionale e sciogliere il parlamento. Nel secondo, probabilmente più realistico, ai militari non resterebbe che attendere il deteriorarsi di una crisi etnico-religiosa che farebbe perdere ad Aung San Suu Kyi il favore popolare, e gli permetterebbe di riprendere il potere “democraticamente” (evitando quindi nuove sanzioni economiche internazionali).

 

Nel frattempo la situazione dei Rohingya non può che peggiorare. Né sembra che i paesi islamici dell’area stiano facendo passi concreti per aiutali. Anzi. Ne è esempio il Bangladesh, che con i Rohingya condivide etnia e religione e dove questi cercano di rifugiarsi. Nell’impossibilità di accoglierli, il governo di Dacca ha elaborato un progetto che prevede la deportazione (“ricollocazione” il termine ufficiale) di decine di migliaia di Rohingya a Thengar Char, una remota isola nel Golfo del Bengala in un’area nota per la frequenza e la violenza di cicloni e inondazioni. Le zone dove attualmente sono stabiliti i loro campi, invece, a quanto si dice rientrano in un più vasto piano di sviluppo turistico. 

Di più su questi argomenti: