La negazione del secolo americano
No. Trump non è l’espressione di un mondo che ritorna Great Again: è l’esatto opposto. Ma per sfigurare quella gnocca della Statua della libertà ci vuole altro. Un gran saggio
Perché Trump è nemico giurato, sfarzoso e improbabile dell’America e dell’occidente? Sembra un giudizio eccessivo. In definitiva, uno potrebbe pensare, è solo nemico della political correctness, e l’identità da lui rilanciata nella sua predicazione truffaldina è pur sempre quella dell’uomo bianco medio occidentale, quintessenza dell’America profonda e centrale, quella sulla quale si vola in aereo, flyover country, passando dalla costa liberal di New York a quella ultraliberal di Los Angeles, i forgotten men che si scuotono di dosso la ruggine della globalizzazione. Ma non è così. È vero che tutto nasce da una fatale cena di stato in cui Obama nella sua eleganza harvardiana prende per il culo senza pietà il celebrity tv che fa campagna per dimostrare che il nero è un presidente illegittimo, nato fuori dai confini degli Stati Uniti, provocando con la sua derisione il rancore e la vendetta efficace dell’uomo bianco contro l’establishment che lo rigetta. Però questo è alla fine solo piccolo cabotaggio politico e psicologico, poco per spiegare.
Trump sfascia un modello che è il secolo americano, il modello della modernizzazione e della competizione vittoriosa tra capitalismo e comunismo tra sistema delle libertà e sistema della coazione totalitaria. Per questo lo adorano sia i post comunisti non pentiti sia i destri bru-bru e tà-tà e parecchi fascisti e fascio-islamisti che passano sopra volentieri alle caratteristiche del billionaire révolté e del figurante di una pseudoguerra antislamica. E lo segnalano come la pietra tombale su una globalizzazione intesa come rapina occidentalista gli orientalisti della scuola di Edward Saïd, una leva di studiosi intelligenti ma acutamente faziosi che leggono il mondo moderno americanizzato come una sequela di atti oppressivi ai danni di popoli e paesi vittime della storia prevaricatrice e della forza omologante e costrittiva del secolo americano. Se vi piacciono la tv libera, i social, le tecnologie di sviluppo, i diritti individuali, l’autonomia delle donne dal patriarcato, la vita in viaggio, le tutele della proprietà e della privacy, la riduzione delle diseguaglianze attraverso la creazione di ricchezza invece che la pianificazione di stato, bè, ecco, allora Trump, l’impostore, il con man che mastica gomma americana da mane a sera, ciancia di muri e tariffe doganali, blinda gli aeroporti e governa con la leva autoritaria della forza legale in nome del popolo, e sembra il prototipo del modello americano, un nuovo cacciatore di indiani come fu Andrew Jackson, in realtà è un nemico.
Usciamo adesso dal campo metaforico amico-nemico. E leggiamo il saggio appena pubblicato dal Times Literary Supplement a firma Pankaj Mishra. Spiega tutto. Spiega perché neoconservatori e conservatori liberali sono uniti ai liberal nell’opposizione all’impostura del ciarlatano. Mishra è uno scrittore e studioso di raro talento, un quarantenne venuto dalle pendici dell’Himalaya. Ha scritto una quantità di testi molto interessanti, lavora nell’ambito di studi e di scuola al quale appartiene anche Peter Frankopan, prolifico storico oxfordiano di origini aristocratiche croate, autore di una “nuova storia del mondo” incentrata sulla centralità nei secoli della via della seta o delle vie della seta. Le cose per lui sono da raccontare in una logica di rapina e di progressiva espropriazione della storia mondiale da parte di un occidente che in realtà era ai margini del commercio e delle grandezze imperiali di tutto quanto ruotava intorno all’Asia centrale e alla Persia (un grandissimo racconto pieno di buchi e di interpretazioni gustose ma fake). Ora, che dice Mishra, il cui punto di partenza non è né quello delle sinistre postmarxiste né quello dei fascio-islamisti?
Dice che il secolo della modernizzazione americana è Time, Life e Fortune, dalle testate lanciate con immenso successo da Henry Luce, editore colossale e profeta dell’american way of life. Tempo, Vita e Fortuna: Luce era figlio di missionari presbiteriani ed era nato in Cina, e voleva creare attraverso la conquista del mondo e dei suoi mercati, e le due cose coincidono, “il primo grande secolo americano”, sicuro che gli Stati Uniti, all’uscita della guerra mondiale incentrata sulla lotta ai totalitarismi europei e vinta dagli americani, erano “il centro motore da cui si irradiavano gli ideali nel mondo e il powerhouse capace di compiere il lavoro misterioso che porta su il livello della vita umana emancipandola da quello delle bestie”. Nota polemicamente Mishra che tanti anni dopo, nel 2009, all’insegna della continuità ideologica, un columnist di successo così diverso da Luce e dal suo profetismo uniculturale, Thomas Friedman, dirà la stessa cosa con parole diverse: “Voglio che tutti siano americani”.
Mishra cita il filosofo George Santayana e il critico Alfred Kazin, e pochi altri, come testimoni dei dubbi che hanno accompagnato la “follia omologatrice” dei precursori della globalizzazione americana che sono così elencati, sullo stesso piano, da Mishra: internazionalisti liberali, neoconservatori promotori della democrazia nel mondo, globalizzatori del libero mercato (in pratica, i nemici dell’impostore e per noi gli amici di tutte le battaglie della Guerra fredda e di quelle successive all’11 settembre). Santayana alluse a un suo personaggio di romanzo, prototipo dei precursori, con questi pensieri: “Non solo l’America era la cosa più grande della terra, ma era destinata a cancellare tutto il resto. E nella delirante e conturbante gioia di questo consumo del mondo, aveva dimenticato di domandarsi che cosa sarebbe accaduto dopo”. Bel colpo, Pankaj, sembra vero, sembra la prefigurazione di un fallimento idealistico, il modello esportato ai danni del resto del pianeta, la cattiva americanizzazione.
Pankaj Mishra ovviamente cita anche, e per esteso, tutti gli intellettuali, esperti, studiosi, consulenti politicizzati che hanno motivato, argomentato e dispiegato sul terreno delle idee il processo reale, per così dire, di barbarica e distruttiva estensione della civilizzazione in tutti i paesaggi terrestri, per quanto diversi e irriducibili fossero o potessero rivelarsi. Ci sono tutti, da Galbraith a McDonald a Lilienthal, ai Chicago boys a Rostow, e sono tutti mandarini, liberal o conservatori, al servizio di un unico potere che si espande e si organizza come ordine mondiale e modello mondiale. L’analisi è ricca e anche abbastanza sfumata, percorre le classi dirigenti del terzo mondo, da Nehru a Nasser, spiega gli effetti imitativi, i tentativi di emulare il modello da parte di borghesi e nazionalisti di diversa religione e cultura. Non è solo la storia di un clima intellettuale che si stende sul secolo americano, è una storia politica e materiale che ripercorre ogni svolta, dalla difesa dello scià di Persia al Vietnam al Cile, e segnala impietosamente quelli che considera i fallimenti del modello e la sua immensa capacità di produrre vittime. Mishra non è uno stupido, sa che lo sfondo è la Guerra fredda, il dopo Guerra fredda, fino all’11 settembre, sa che debellare il comunismo realizzato era la ragione addotta e intrinseca di questo processo dell’americanizzazione, non sorvola sull’epoca di Reagan ma relativizza e non capisce come mai si potessero fare delle cose per lui più o meno buone, come liberare un terzo dell’umanità dall’oppressione totalitaria, ma estendendo a tutti il modello mercatista che genera gangsterismo economico e, alla fine, con il Washington consensus, cioè la piattaforma ideologica del clintonismo, inizia a insabbiarsi, il modello, fino alla deflagrazione con la vittoria elettorale di Trump con tutta la sua avventura.
Mishra ovviamente non può amare Trump. A leggerlo letteralmente e tra le righe non gli si può addebitare simpatia per il losco, el Feo, uno che gli impedirebbe di sfruttare il suo visto, e molto altro. Però gode. Considera l’impostore come la pietra d’inciampo di un’impostura più grande di lui, quella della democrazia di mercato estesa al mondo intero. Il suo saggio parla in modo eloquente, però. Trump non è l’espressione del secolo americano che ritorna Great Again, è la sua negazione. Finora non si erano letti testi tanto espliciti e chiari nel definire, a parti rovesciate per così dire, perché non possiamo non essere #nevertrumpisti. Il secolo americano dei Luce e di tutti gli altri, Tempo Vita Fortuna, è stato macchiato da sciagurate brutture, come ogni grande fenomeno storico non è senza colpe, ma ha realizzato un complicato sistema a vasto raggio che aumentava la libertà e riduceva le diseguaglianze di diritto e di fatto, il che non mi sembra poco. Non sarà un signore con un impossibile riporto, i cui araldi di casa nostra fanno ridere e piangere, e la cui estraneità al meglio dell’Europa, dell’America e della civiltà orientale è acclarata a prima vista, a spiantare un secolo tanto opaco quanto illuminato. C’è chi pensa che basteranno sei mesi per sistemare la questione. Illusione pericolosa da indignati impotenti, perché la legalità istituzionale in America è una cosa seria e l’impostura è perfettamente riuscita, come nel romanzo di Melville, The Confidence Man, che sulla scorta di Roth consiglio a tutti. Ma per sfigurare quel puttanone che si chiama Statua della libertà, credetemi se volete, ci vuol altro.