Quel patto faustiano dei repubblicani che fa ridere e innervosire Trump
Cacciate e nomine. I democratici scelgono i boicottaggi, i repubblicani a un bivio: con il presidente o contro
Milano. Dai che ci divertiamo con l’imprevedibile Donald Trump alla Casa Bianca, dicevano i cinici nell’attesa dell’insediamento, ed eccolo, il caos: l’America al momento ha un procuratore generale licenziato come “traditore”, uno ad interim per qualche giorno nell’attesa che il terzo, il nominato dal presidente Jeff Sessions, sia confermato al Senato. Peripezie istituzionali? Non proprio, perché c’è un executive order sul divieto all’immigrazione da alcuni paesi musulmani che sta sgretolando ministeri e partiti, e che pone una domanda: che si fa ora? I democratici ricostituiscono la loro protesta, con quei testimonial da bolla liberal che già non portarono bene alle presidenziali, mentre i repubblicani sono di fronte a un test epocale.
Gli insider raccontano che il divieto all’immigrazione potrebbe risultare più popolare di quanto non sembri dalla copertura mediatica, e questo getta nello sconforto i democratici, che ancora non hanno stabilito che genere di opposizione fare a Trump, e in che termini, e sono immersi in calcoli elettorali dall’esito incerto: intanto ieri hanno deciso che boicotteranno le commissioni al Senato che devono confermare i nominati di Trump al Tesoro e alla Sanità, impedendo ai repubblicani di avere il quorum necessario per le conferme e mettendo di fatto in stallo il processo di formazione del governo. Per i repubblicani la questione è diversa e ideologicamente più rilevante, perché non si tratta di opposizione e tatticisimo, quando piuttosto di ristabilire la propria identità, affare che già si è mostrato complicatissimo durante la tormentata campagna elettorale. David Brooks, intellettuale conservatore, ha fatto una disamina precisa sul New York Times di quel che lui chiama “il patto faustiano” di molti repubblicani con il loro presidente: non lo amano, non si fidano di lui, ma rispettano la sua vittoria e “il grip” che ha sui loro elettori, e “quante altre volte nella vita capiterà al loro partito di controllare tutti i livelli del potere?”. Ma questi primi giorni di Amministrazione Trump, scrive Brooks, hanno reso evidente che “l’accordo siglato con il diavolo ha un prezzo troppo alto. Davvero potrebbe costare loro l’anima”.
Di anima parlava anche Eliot Cohen, intellettuale neocon, due giorni fa sull’Atlantic, sostenendo che la decisione – con Trump o contro – è tanto necessaria quanto incontrovertibile. Al presidente non è che i sussulti identitari interessino più di tanto: è in rotta con il partito da sempre e si aspetta che siano i repubblicani ad adattarsi a lui, non certo il contrario. E nessuno si aspetta che la situazione possa migliorare, anzi, “può solo peggiorare, nel momento in cui il potere intossicherà Trump e i suoi”, scrive Cohen. Per Brooks l’elenco delle rimostranze identitarie è lungo, va dalla “crudeltà” dell’Amministrazione trumpiana al “ban” sull’immigrazione che poteva essere, secondo lui, definito in termini semplici con una revisione del processo di accettazione e un tetto agli ingressi, e invece si è risolto “con modalità insultanti” per i musulmani e per gli americani. Ma i faustiani ora sono di fronte a un bivio: “Qui c’è un problema che richiede una risposta. C’è un gruppo di persone (l’Amministrazione Trump, ndr) goffo e spietato che impone o la lealtà personale o la scure”. I repubblicani, come fecero ai tempi di Nixon, dovranno “o opporsi a Trump e rischiare di avere i suoi tweet contro o allinearsi a lui e vivere con la sua macchia”. Non siamo più nel campo di chi è d’accordo e chi non lo è, conclude Brooks, “c’è un pericolo per il partito e per il paese nella loro natura esistenziale”.
Lo stesso tono apocalittico compare nell’ultimo articolo che David Frum, saggista conservatore, ha pubblicato sull’Atlantic: “Come si costruisce un’autocrazia” è il titolo e racconta come Trump ha il potere, e forse anche la volontà, di far piombare il paese nell’illiberalismo. Alcuni leader repubblicani si stanno unendo in una resistenza pragmatica contro il presidente, sono capitanati dal “maverick” John McCain, che molti conservatori guardano oggi con nostalgia: Bill Kristol, direttore del magazine neocon Weekly Standard contrario alle politiche trumpiane, ha raccontato di aver incontrato il senatore all’aeroporto e di aver avuto un moto di nostalgia: se nel 2008 avesse vinto lui “no Obama no Trump”. Ma Trump non teme alcuna resistenza, anzi, finisce per approfittarsene: questo è comunque l’establishment, questi sono comunque gli esperti, li vedete? Non capiscono nulla. Paul Ryan, speaker della Camera, tormentato e in prima linea, ieri ha fatto il primo passo. E’ un faustiano, e ha difeso il divieto sull’immigrazione di Trump.
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