“Due terzi dei francesi indifferenti alla fuga degli ebrei”
E per la sinistra islamofila di Hamon, Israele è “peggio dell’apartheid”
Roma. Nei giorni scorsi, in occasione della Giornata della memoria, i cinema francesi hanno proiettato “Il viaggio di Fanny”, la fuga dalla Francia di una ragazzina ebrea sotto l’occupazione nazista. Il film è tratto dalla storia vera di Fanny Ben-Ami, che oggi vive in Israele. Nell’ultimo anno, altri seimila ebrei francesi hanno fatto le valigie per andare a vivere nello stato ebraico. Una fuga, anche questa, dettata dall’antisemitismo. Cosa ne pensano i loro concittadini? Ce lo rivela il principale centro di sondaggi francesi, l’Ipsos, che ha diffuso un rapporto-choc dal titolo “Evoluzione delle relazioni con l’altro nella società francese”. La Francia è diventata il primo paese d’origine degli “olim” (immigrati) in Israele, registrando duemila partenze nel 2012, tremila nel 2013, 7.231 partenze nel 2014 e ottomila nel 2015, quando si è verificato l’attentato islamista all’Hypercacher. Stando al sondaggio Ipsos, il sessanta per cento degli intervistati si è detto “indifferente” all’autoesilio degli ebrei francesi, il sette per cento si è detto “contento” e soltanto il trenta per cento si è dichiarato contrariato.
L’indagine rileva anche che la metà dei sei milioni di musulmani francesi nutre sentimenti “antisemiti”. Inoltre, gli ebrei francesi sono presi politicamente fra due fuochi: tradizionalmente divisi fra gollisti e socialisti, quest’anno alle presidenziali vedranno lo scontro fra la destra del Front national, l’incognita Macron e la sinistra radicale che Malek Boutih, deputato socialista dell’Essonne, ha appena definito “islamo-goscista”. Il candidato socialista all’Eliseo, Benoît Hamon, nutre infatti legami forti con la galassia musulmana, mentre il suo avversario, Manuel Valls, aveva promesso che “non può esserci una Francia senza ebrei” e aveva scommesso sulla lotta al fondamentalismo islamico in nome della laicità. Durante le primarie socialiste, in una dichiarazione a Libération un ministro aveva chiamato Hamon “il candidato dei Fratelli musulmani”.
Il portavoce di Hamon, Alexis Bachelay, deputato dell’Hauts-de-Seine, non solo partecipa alle serate del Collectif contre l’islamophobie en France, ma ha definito la mostra del comune di Parigi “Tel Aviv sulla Senna” una “Pretoria-sur-Seine”, perché Israele è come “il Sudafrica prima del rilascio di Mandela”. Anzi, “dato ciò che sta accadendo in Palestina, il regime di Pretoria era forse più morbido dell’estrema destra che governa in Israele”, ha continuato il portavoce di Hamon. Lo stesso Benoît Hamon ha definito il sostegno alla “causa palestinese” come “il modo migliore per recuperare l’elettorato nelle nostre periferie”.
L’intellettuale ispiratrice di Hamon, la sociologa belga Chantal Mouffe, studiosa di Georg Lukács e “portaborse” durante la guerra di Algeria, ha firmato il boicottaggio culturale di Israele. Un altro candidato alle primarie socialiste, l’ex ministro dell’Istruzione Vincent Peillon, nei giorni scorsi si è spinto in un parallelo tra l’antisemitismo e l’“islamofobia”. Frasi che fanno seguito a quelle del primo segretario del Partito socialista, Jean-Christophe Cambadélis: “Vi è la stessa voglia di stigma. Sotto Vichy erano gli ebrei, ora sono i musulmani”. Sabato, intanto, alla moschea di Roubaix, nel nord, l’Unione delle organizzazioni islamiche di Francia ospiterà Hani Ramadan, fratello del più noto Tariq e che ha più volte attaccato il “potere sionista”. Vichy fu questo, indifferenza e omissione. Intanto, 40 mila ebrei hanno abbandonato la Francia negli ultimi dieci anni. Un decimo del totale. Un decimo.