Se la moneta debole è la felicità, perché vengono da noi sui barconi?
La miopia di chi parla a vanvera di svalutazione
Roma. Quando si parla di stranieri che cercano una vita migliore in Italia si tende a trascurare una costante significativa. Vengono tutti da paesi con monete molto più deboli dell’euro. Prendiamo le sei comunità più grandi di stranieri residenti in Italia e vediamo per fare un esempio come se la cavano al cambio di ieri con cento euro: abbiamo i rumeni (con 100 euro otteniamo 453 leu, valuta della Romania), gli albanesi (con 100 euro otteniamo 13.633 lek, moneta nazionale dell’Albania), marocchini (con 100 euro otteniamo 1.073 dirham), cinesi (100 euro sono pari a 737 renminbi) e ucraini (100 euro sono pari a 2.914 grivnia). Questi numeri riguardano comunità di stranieri che ormai si sono stabilizzate, ma la stessa costante vale anche per gli stranieri più freschi, quelli che attraversano il mare e sbarcano in condizioni d’emergenza. Vediamo i numeri. I migranti e rifugiati arrivati in Italia nel 2016 provengono soprattutto da Nigeria (15 per cento), Gambia (10 per cento), Somalia (9 per cento), Eritrea, Guinea e Costa d’Avorio (8 per cento). Immaginiamo di nuovo di andare a cambiare cento euro nelle loro valute nazionali e avremo: 32.875 naira nigeriani, 4.696 dalasi del Gambia, 62.329 scellini somali, 1.668 nakfa dell’Eritrea e così via. C’è da dire che i luoghi di origine dei migranti cambiano negli anni, ma se si va per esempio a prendere il 2013, quando a sbarcare erano in maggioranza siriani, e c’erano grandi numeri di egiziani e pachistani, il discorso non cambia. Il flusso migratorio arriva da noi con in tasca monete deboli. Il che spiega perché è più facile trovare un lavoratore dipendente italiano pagato in euro in vacanza a Sharm el Sheikh in Egitto che – viceversa – un lavoratore dipendente egiziano pagato in sterline egiziane che trascorra le vacanze in Italia.
Questi dati sono interessanti perché riguardano un cavallo di battaglia di alcuni partiti che sono antieuro, anti europeisti, anti Nato, filo Brexit, filo russi e che battono spesso sul problema immigrazione (diciamo quel fronte che in Italia include Lega nord e Cinque stelle, e che all’estero si declina in forme diverse, per esempio l’Ukip di Nigel Farage nel Regno Unito e Marine Le Pen in Francia. Sono tutti partiti accomunati da una stella polare fissa: Mosca). La loro idea è che se pure l’Italia potesse uscire dall’euro e potesse svalutare la propria moneta (cosa che non può fare se non dopo avere pagato centinaia di miliardi alla Banca centrale europa – ma consideriamo qui per ipotesi se lo potesse fare) allora diverrebbe competitiva.
A questo proposito Francesco Lippi, professore ordinario di economia presso l’Einaudi Institute for Economics and Finance a Roma e all’Universita di Sassari, dice al Foglio che l’effetto svalutazione della moneta agirebbe soltanto sul breve termine. Il dopo-euro potrebbe concedere un po’ di respiro negli stessi termini in cui i saldi concedono un po’ di respiro a un negoziante, ma non può risolvere la situazione sul lungo termine. Proprio su questo punto ieri anche il presidente della Banca centrale europea, Mario Draghi, ha risposto a una domanda di Marco Valli dei Cinque stelle sull’opportunità di una svalutazione. Draghi ha detto che se si esclude l’ipotesi di un taglio salariale (se ci tagliassimo tutti lo stipendio del venti per cento funzionerebbe come una svalutazione dell’euro, ma senza uscire dall’euro. Tuttavia è una strada non percorribile) allora l’unica soluzione che resta è un aumento di produttività. La strada non è svalutare la moneta, non è tagliare gli stipendi, ma produrre di più. Il punto è che si tratta di una soluzione a lungo termine – dice Draghi – e quindi presuppone anche tempo e investimenti nell’istruzione e nella ricerca.
Dove li troviamo i soldi per questi investimenti? ha chiesto Valli. Non serve aumentare il budget, serve cambiare le voci di spesa all’interno del budget, ha risposto Draghi. Chiediamo al professor Lippi perché l’idea della moneta debole è considerata così attraente in Italia, paese di redditi bassi fissi, se al massimo ci può dare un vantaggio effimero. “Per tre ragioni. Perché dal punto di vista della propaganda politica offre un bersaglio–totem facile da identificare, perché offre un capro espiatorio esterno – tutta colpa di Bruxelles e Francoforte, mai nostra – e perché in effetti negli anni delle svalutazioni l’Italia attraversava una congiuntura molto buona, a cui pensiamo con nostalgia: ma le svalutazioni non erano che un fattore e ne trascuriamo altri. Per esempio l’aumento dell’export cinese in questi anni non c’era, eravamo noi la Cina d’Europa. E tutto il mondo oltre la Cortina di ferro non era sul mercato: per esempio la Polonia”.
L'editoriale dell'elefantino