La prima missione del capo della Cia di Trump è oggi in Turchia
Martedì sera Trump aveva chiamato Recep Tayyip Erdogan ribadendo l’appoggio dell’America alla Turchia, definita “un partner strategico e un alleato Nato”
Roma. Oggi in Turchia arriva Mike Pompeo, neo direttore della Cia nominato da Donald Trump alla sua prima missione ufficiale all’estero – è una visita che è stata rivelata ieri dall’agenzia di stato turca Anadolu. Martedì sera il presidente americano aveva telefonato al presidente turco, Recep Tayyip Erdogan, e aveva ribadito l’appoggio dell’America alla Turchia, definita “un partner strategico e un alleato Nato”. Sono parole che contano, considerato che Erdogan era furioso con l’Amministrazione americana di Obama per colpa dello scarso sostegno percepito a luglio al momento del fallito golpe militare che per un soffio non lo ha spodestato, e anche perché è significativo che Trump citi la Nato in un contesto positivo – perché lui è critico nei confronti di quell’Alleanza militare. Per questi motivi, la dichiarazione scritta rilasciata dalla Casa Bianca per descrivere la telefonata tra i due leader si può leggere come una pausa rinfrescante di vecchia geopolitica (vecchia nel senso di: prima di Trump), e come una conversazione normale tra due interlocutori che ribadiscono interessi comuni.
Si potrebbe leggere così, non fosse che invece la Turchia ha sfruttato la telefonata per descrivere una nuova, fortissima alleanza tra Washington e Ankara proiettata verso operazioni congiunte massicce dentro la Siria. Pompeo arriva in Turchia per parlare di due dossier. Uno è la richiesta di estradizione contro Fethullah Gülen, la figura religiosa turca che vive in esilio in America ed è accusata da Erdogan di cospirare da anni contro di lui – e di essere anche l’ispiratore del golpe di luglio. L’altro dossier è la campagna militare contro lo Stato islamico nel nord della Siria. La Turchia si aspetta ora più aiuto da parte degli americani per prendere al Bab, una città siriana occupata dallo Stato islamico che impedisce ai soldati turchi e ai loro alleati – i gruppi ribelli siriani – di ultimare la conquista di quel quadrante di Siria, a nord-est di Aleppo. Il governo di Ankara dice ai giornali che Trump è pronto a impegnarsi assieme ai turchi per prendere prima al Bab e poi anche Raqqa, capitale di fatto dello Stato islamico in Siria.
Vale la pena notare che questa promessa del presidente americano Trump – aiutare i turchi sul fronte di al Bab – lo porrebbe di fatto come alleato dei gruppi ribelli che oggi su quello stesso fronte combattono assieme ai turchi contro lo Stato islamico, ma che hanno per ragione di vita e per obbiettivo finale la guerra contro il presidente siriano Bashar el Assad. In campagna elettorale Trump si era pronunciato a favore di Assad. Si vedrà in seguito cosa succederà, perché in Siria le alleanze cambiano di mese in mese. Ma senz’altro la supposta promessa trumpiana di prendere Raqqa assieme ai turchi, e non assieme ai curdi delle Forze siriane democratiche (SDF) suona straordinaria – ma non è stata confermata. Intanto in Iraq il generale americano Stephen Townsend, che comanda le operazioni americane in quella zona, dice a Reuters che entro sei mesi sia Mosul sia Raqqa cadranno, e che la seconda sarà isolata del tutto nelle prossime settimane (e questo contraddice quello che dicono i turchi).
Aaron Stein, analista americano del think tank Atlantic Council specializzato in Turchia, dice che c’è da stare attenti allo spin turco, ovvero al desiderio del governo e dei media di dare una piega a loro favorevole alle notizie. La Turchia non può lanciare davvero una campagna per prendere Raqqa dopo al Bab, perché la seconda città dista 180 km dalla prima e lo spazio fra le due è controllato dai curdi delle Unità di difesa popolare (YPG) che sono ostili e dal regime siriano. “L’idea che l’offensiva su Raqqa sia stata discussa in 45 minuti di telefonata non regge”, aggiunge. Stein dice anche di essere molto scettico all’idea che il viaggio in aereo di Pompeo per la Turchia sia stato deciso soltanto dopo la telefonata fra Erdogan e Trump, come se il suo arrivo fosse la conseguenza del colloquio e non fosse già organizzato da tempo.