Il jihad, “figlio ibrido dell'occidente”

Giulio Meotti

“Les Revenants” e l’islamismo come risposta al “vuoto ideologico”

Roma. È il fenomeno editoriale francese degli ultimi mesi. Il titolo del libro di David Thomson, “Les Revenants” (Seuil), evoca il cinema horror. Il contenuto in effetti è terrificante. Tuttavia, gli zombie in questo caso non tornano dall’Aldilà, ma dalla Siria. Sono i “soldati” francesi dello Stato islamico e i jihadisti “made in France”. Come quelli che ieri, a Parigi, sono stati arrestati prima che entrassero in azione. Che cosa può spingere un giovane francese a farsi saltare in aria gridando Allah Akbar? “Pazzi”? “Svantaggiati”? “Stigmatizzati”? Niente affatto. Molti esperti, da Olivier Roy a Gilles Kepel, hanno cercato di rispondere a queste domande. Come scrive il Financial Times, Thomson è forse il solo a esserci riuscito.

 

La grande forza del suo libro è di aver avvicinato i jihadisti e averli fatti parlare. C’è Kevin, un ragazzo bretone che si è convertito all’islam a quattordici anni. C’è Bilel, “venuto a vivere sotto la sharia”. C’è Abu, determinato a “far saltare tutto, donne, bambini, gatti, cani, cammelli”. C’è Lena, che vuole il jihad per “riconquistare la dignità che ci hanno tolto”. Ma il più illuminante è Zubair, cresciuto in un progetto socialista di edilizia popolare a Seine-Saint-Denis e che ha scelto la guerra santa come “risposta al vuoto ideologico e alla metafisica della postmodernità”. Parla come un intellettuale, Zubair: “Ci spingono a consumare, consumare, consumare di più. Ma non danno una ragione di vita e sembra che siamo morti”. I jihadisti non sono i dannati della terra, ma gente che cerca “un progetto teologico-politico”.

 

Un dibattito modellato in gran parte da due studiosi, l’arabista Kepel e il politologo Roy. Se il primo sottolinea l’influenza islamica del terrore, per Roy la dimensione religiosa è secondaria. L’obiezione di Kepel a Roy è anche metodologica: bisogna ascoltare i jihadisti e prenderli in parola. Questo è esattamente ciò che ha fatto Thomson in “Les Revenants”.

 

Come scrive Foreign Policy nel recensire il libro, “il senso di umiliazione, la discriminazione, e la furia post coloniale; padri assenti e traumi famigliari; il pendio scivoloso tra la delinquenza giovanile e la ‘guerra santa’; e la promessa di un paradiso sessuale – tutti questi sono elementi importanti per spiegare il jihad in Francia, sostiene. Tuttavia, niente di tutto questo sarebbe sufficiente senza il ruolo importante e troppo spesso respinto della religione”. Zubair, uno degli interlocutori più eloquenti di Thomson, è sprezzante sulle ipotesi di radicalizzazione sociale. “Tutto ha a che fare con l’islam”, ripete. Le donne intervistate da Thomson sono virulente nel loro odio verso lo stato e la cultura francesi. Una di loro, Lena, descrive il massacro di alcuni membri della redazione di Charlie Hebdo, nel gennaio 2015, come “uno dei giorni più belli della mia vita”. “Il jihadismo ‘made in France’ è il frutto dell’incontro tra l’islam radicale e l’èra del vuoto”, scrive il Figaro. “Il figlio ibrido di un’utopia assassina e di un’epoca disincantata”.

 

Lo dice chiaramente Zubair: “Quando vediamo che l’unico progetto nelle democrazie occidentali è di fornire potere d’acquisto alle persone, questo è il vuoto e non fornisce alcun desiderio di vivere”. Ma forse ne fornisce uno per uccidere.

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  • Giulio Meotti
  • Giulio Meotti è giornalista de «Il Foglio» dal 2003. È autore di numerosi libri, fra cui Non smetteremo di danzare. Le storie mai raccontate dei martiri di Israele (Premio Capalbio); Hanno ucciso Charlie Hebdo; La fine dell’Europa (Premio Capri); Israele. L’ultimo Stato europeo; Il suicidio della cultura occidentale; La tomba di Dio; Notre Dame brucia; L’Ultimo Papa d’Occidente? e L’Europa senza ebrei.