La telefonata Trump-Xi mostra che the Donald è una tigre di carta
Il presidente americano concede al cinese il “principio dell’Unica Cina” e si mostra docile: il contrario di quanto annunciato
Roma. In un articolo molto commentato apparso qualche giorno fa su Foreign Policy, James McGregor, analista americano di cose cinesi ed ex capo del bureau del Wall Street Journal a Pechino, scriveva: “Donald Trump dovrebbe sapere che sta per essere battuto in astuzia da un paese che ha superato in strategia i politici e gli uomini d’affari americani per almeno un decennio”. Trump sembrava pronto a cambiare questo stato di cose, e i suoi annunci nei confronti della Cina avevano suscitato preoccupazioni e speranze: la telefonata alla leader di Taiwan, le minacce sulla politica dell’Unica Cina, caposaldo irrinunciabile delle relazioni Washington-Pechino, la nomina di un team di mastini anticinesi, la retorica dura nei confronti di Pechino, la promessa di azioni militari nel mar Cinese meridionale fatta dal segretario di stato Rex Tillerson.
Per i pessimisti, queste mosse erano un biglietto di sola andata verso la Terza guerra mondiale, ma molti analisti hanno iniziato a pensare che forse, dietro alla cortina di aggressività sbandierata, per una volta Trump avesse nella manica una politica sapiente volta a raddrizzare, con il bastone e la carota, le storture dei rapporti America-Cina troppo sbilanciati su commercio, assertività militare cinese, perfino diritti umani. Non era niente di tutto questo. La telefonata di ieri tra Trump e il presidente cinese Xi Jinping mostra che ancora una volta l’americano è stato superato in strategia dal cinese. Nella telefonata, tra una formalità e una promessa di stretta cooperazione, Trump assicura Xi che “onorerà il principio dell’Unica Cina”, rimangiandosi le parole avventate delle scorse settimane in cui assicurava che anch’esso sarebbe stato in gioco per ricalibrare i rapporti e rimettendosi placidamente nella tradizione di presidenti americani concilianti e a volte perfino docili davanti a una Cina sempre più assertiva (promemoria: il principio dell’Unica Cina è quello per cui Washington riconosce solo il governo di Pechino e non quello di Taiwan, considerando quest’ultima solo come una provincia smarrita).
Mao Zedong diceva che l’America è una “tigre di carta”, e Trump, agli occhi della Cina, è sembrato un bulletto che smette di dimenarsi appena qualcuno si mostra pronto a tenergli testa. Secondo un retroscena del New York Times, dopo la dimostrazione di forza anticinese da parte dell’Amministrazione Trump, Xi Jinping ha riservato al nuovo presidente la cura del silenzio: nessuna telefonata e comunicazioni ridottissime, mentre il mondo si chiedeva perché i presidenti delle due superpotenze ancora non si fossero parlati. Alla fine è stato Trump, il duro negoziatore, a dover mostrare segni di buona volontà ai cinesi, con la visita della figlia Ivanka all’ambasciata e il cordiale bigliettino inviato a Xi per il capodanno cinese e reso pubblico – mossa non protocollare. Così, sono stati i cinesi a imporre le condizioni: la telefonata potrà avvenire solo se Trump riconoscerà il principio dell’unica Cina. Detto fatto. The Art of the Deal.
La lista di presidenti accondiscendenti nei confronti della Cina è lunga, Trump non è certo il primo, e a lui, quanto meno, si può concedere ancora il beneficio del dubbio. George H. W. Bush, dopo il massacro di piazza Tiananmen, scrisse tre lettere private a Deng Xiaoping per scusarsi se il Congresso lo aveva costretto a imporre sanzioni. Bill Clinton capì ben presto che per trattare con i cinesi avrebbe dovuto abbandonare tutte le sue pretese sui diritti umani, e lo fece. Ma Trump è il presidente rivoluzionario che avrebbe dovuto cambiare radicalmente il modo in cui si tratta con la Cina. La sua prima mossa è molto convenzionale.
L'editoriale dell'elefantino